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Per il tessuto industriale italiano diventa sempre più necessario diventare “smart”

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Sempre di più le aziende italiane approcciano al paradigma Industria 4.0 ma rispetto ai competitor europei ed internazionali siamo ancora indietro. Promuovere un manufacturing “smart” rappresenterebbe un vantaggio competitivo importante soprattutto per l’Italia, paese leader nella manifattura. Quali politiche industriali promuovere per facilitarne lo sviluppo? Il nuovo Piano “Industria 4.0” riuscirà a superare i limiti evidenziati nel precedente? Quali, infine, i benefici attesi dall’arrivo dei fondi europei?

 

Sempre di più all’interno delle aziende italiane sta assumendo rilevanza il paradigma Industria 4.0. A riportarlo è la Digital Business Transformation Survey[1] di The Innovation Group in cui è stata inserita una sezione specifica dedicata allo smart manufacturing e riservata ai rispondenti del settore industriale.

Nel dettaglio l’analisi, presentata nel corso dello Smart Manufacturing Summit Live organizzato da The Innovation Group lo scorso 16 settembre, mostra come nella maggior parte dei casi i progetti in corso siano ad uno stadio avanzato: il 47% del campione ha, infatti, dichiarato che la propria azienda ha avviato uno o più progetti di smart manufacturing contro l’11% che sta pianificando tali attività e il 21% che sta indagando cosa fare; nel 21% dei casi, infine, non è stata ancora avviata alcuna iniziativa. Tra i principali ambiti di investimento si citano il digital/remote monitoring, soluzioni ERP e l’Industrial Cybersecurity.

Come affermato da Ezio Viola, Co-founder The Innovation Group, «pur trattandosi di risultati positivi, se tuttavia confrontati con analoghe survey internazionali, emerge un evidente ritardo delle nostre imprese manifatturiere, soprattutto se PMI, ad abbracciare paradigmi innovativi e smart». Il dato assume ancora più rilevanza se si considera che il tessuto produttivo del nostro Paese è composto in larghissima parte da aziende di piccole dimensioni e che l’Italia, come affermato da Francesco Baroni, Country Manager, Gi Group, «rappresenta ancora oggi una delle principali potenze del mondo manifatturiero», un contesto in cui – ha proseguito Baroni – «emerge una progressiva esigenza di specializzazione».

Allo stato attuale, infatti, la DBT survey rileva che i principali ostacoli ad un pieno sviluppo dello smart manufacturing sono la mancanza di competenze/skills avanzate e l’elevato costo da sostenere per l’implementazione dei progetti. La problematica è stata evidenziata anche da Gildo Bosi, Responsabile R&D Automation Sacmi, azienda leader internazionale nell’impiantistica industriale, secondo cui «oggi il mercato offre un’ampia offerta di strumenti tecnologici che permettono alle aziende di ottimizzare ed efficientare i propri processi ma si riscontra ancora una grave carenza di competenze».

Per Michele Zanocco, Segretario Nazionale Fim-Cisl, la scarsità di lavoratori qualificati e in grado di supportare i cambiamenti in atto è da attribuire anche alle aziende: nel 2019 soltanto il 19% delle aziende italiane ha fornito ai propri dipendenti la possibilità di frequentare corsi ICT, contro una media europea molto più elevata. Si tratta di un gap che «più che sull’occupazione va ad incidere sull’occupabilità delle persone».

«Lo smart working – ha proseguito Zanocco – cambierà in maniera radicale il modo di lavorare e in modo particolare le dinamiche fiduciarie del rapporto di lavoro, introducendo nuovi strumenti di cooperazione e collaborazione e inducendo a tener conto di tre aspetti: quello infrastrutturale, formativo e normativo (diritto alla disconnessione)».

Sul tema sono intervenuti anche Antonella Salvatore, Director, Continuing edu and Career Services, John Cabot University e Fondatrice di Osservatorio Cultura Lavoro secondo cui va «ripensato il processo di conversione professionale» e Federico Butera, Professore Emerito di Scienze dell’Organizzazione, Università di Milano Bicocca che ha ribadito la necessità di «cambiare i ruoli dei lavoratori» e «smantellare gli uffici fabbrica, costruendo mestieri e professioni a banda larga in cui le persone si identifichino».

Infine, attraverso quattro tavole rotonde parallele, sono state affrontate le seguenti tematiche:

 

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Quali prospettive con il nuovo Piano Industria 4.0 e il Recovery Fund

Per Fabrizio Gea, Responsabile Nazionale Rete Digital Innovation Hub, Confindustria, il Piano Industry 4.0 ha rappresentato «uno shock positivo dal punto di vista industriale». «Il Piano Industria 4.0 – ha ribadito Michele Poggipolini, Presidente del Gruppo Giovani, Confindustria Emilia ed Executive Director – Sales & Innovation, Poggipolini – oggi è ancora più importante rispetto a qualche anno fa, poiché è maggiormente sentita dalle aziende la necessità di sfruttare soluzioni in grado di garantire investimenti certi: il mercato digitale continua a crescere e l’Italia non può permettersi di rimanere indietro».

Al riguardo di recente il Ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha inserito la transizione digitale dell’industria tra gli investimenti prioritari che il governo ha intenzione di effettuare tramite il Recovery Fund, ribadendo che «il pacchetto 4.0 va profondamente rafforzato[2]».

Tali tematiche sono state affrontate durante l’evento nella sessione dal titolo “Impresa 4.0 and beyond: le regole e le politiche industriali per lo sviluppo, per la ripartenza e crescita” in cui è emerso come la crisi vissuta abbia fatto comprendere la necessità per le aziende di avviare una completa trasformazione al proprio interno, evidenziando come a reagire meglio alle difficoltà rilevate durante il lockdown siano state soprattutto le realtà che avevano già avviato la digital transformation al proprio interno.

Per l’Italia, già in svantaggio rispetto ai competitor europei, appare, dunque, fondamentale intervenire per modificare i propri modelli di business: la crisi deve rappresentare un’opportunità per rimettersi in discussione, partendo dalle criticità emerse e ragionando su come diversificare al meglio le attività.

In questa sfida assumono un ruolo rilevante i Competence Center e i Digital Innovation Hub: come infatti affermato da Antonio Carta, Presidente, SMILE Digital Innovation Hub, «oggi per un’impresa capire a chi rivolgersi è estremamente complesso», per tali ragioni è, dunque, importante «affidarsi ad attori che abbiano una forte vocazione territoriale, volti a valorizzare le peculiarità dei territori. Bisogna, inoltre, lavorare insieme e sfruttare la presenza di network tecnologici, oltre che promuovere un forte cambiamento culturale da parte degli imprenditori. La guida dei Competence Center e dei Digital Innovation Hub nella creazione di ecosistemi innovativi è il principale presupposto per permettere la crescita delle aziende italiane».

 

 

 

 

 

[1] La survey è stata condotta tra gennaio e febbraio 2020 e si basa su un campione di 181 aziende italiane appartenenti a diversi settori aziendali. In particolare il campione a cui si fa riferimento nel testo è composto da 21 rispondenti.

[2] Si ricorda che lo scorso maggio il Ministro Patuanelli ha annunciato l’arrivo del Piano “Transizione 4.0” che va a potenziare il cosiddetto “Industria 4.0” (poi diventato “Impresa 4.0”).

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