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Startup: il successo del 2018 sarà duraturo?

N.  Dicembre 2018
        

a cura di Julian McNeill 
Analyst, The Innovation Group 

 

Dopo un 2017 “nero” per il panorama startup italiano, che per la prima volta aveva visto un calo degli investimenti rispetto agli anni precedenti, il 2018 si profila come un anno di possibile rilancio per le imprese innovative che tentano di entrare nel mercato. Secondo Startup Italia, società che tra le altre attività si occupa di monitorare l’ecosistema startup italiano, gli investimenti nei primi sei mesi del 2018 hanno raggiunto la quota 233 milioni, superando di gran lunga (+71,3%), i 136 milioni di euro investiti nel corso dell’intero anno precedente. L’aspettativa è che la cifra arrivi a più di 300 milioni entro la fine dell’anno.

La domanda che ci si deve porre però, è se questo dato costituisce solo un rimbalzo o l’inizio di un trend di crescita che consentirà di ricucire il divario con Paesi come Francia e Germania, in cui le startup raccolgono ormai da qualche anno ben oltre il miliardo di euro di fondi.

 

Figura 1 – Investimenti in Startup in Italia

Fonte: Elaborazione TIG su dati Startup Italia

 

I dati consolidati per il 2017 evidenziano che solo il 42,1% delle aziende classificate come startup innovative ha vantato un bilancio in attivo o in pareggio e i debiti generati complessivamente per quell’anno sono arrivati a circa 133 milioni di euro[1]. Benché sia naturale che le imprese innovative abbiano bisogno di tempo prima di generare utili, nel corso del 2017 le imprese attive da almeno 3 anni hanno fatto registrare perdite nell’ordine dei 7,1% dei ricavi. Il dato in qualche modo “giustifica” gli scarsi investimenti da parte dei vari attori, privati, istituzionali, crowdfunding o venture capital (VC) che siano, i quali non trovano nel mercato dimostrazioni di successo a livello di profittabilità e grandezza.

È chiaro però che senza un continuo flusso di capitale, il processo sequenziale di “startup”, “scale up” e “consolidamento” non può avvenire. In quest’ottica, l’altra faccia della medaglia è proprio l’appoggio da parte degli investitori, che ogni tanto manca anche quando vi sono le condizioni giuste. Storicamente infatti, coraggio, propensione al rischio e fiducia nel “nuovo” sono fattori che mancano a livello strutturale nel sistema finanziario italiano. Il venture capital in Italia è irrisorio rispetto al VC in altri paesi, con 5 player di rilievo rispetto ai 40 presenti in Francia per esempio. Per numerosi motivi inoltre, l’accesso al credito tramite le banche è particolarmente difficoltoso nel Paese, specie se si tratta di investimenti ad alto rischio. Persino nel mondo corporate privato poi, si preferisce indirizzare il capitale all’interno del proprio perimetro o verso strumenti finanziari considerati più sicuri piuttosto che verso progetti ad alto rischio.

Il problema principale quindi sembra essere la fase di scale up, e non la mancanza di innovatori validi che peraltro abbondano in Italia grazie alle prestigiose università presenti sul territorio. Nonostante vi siano oggi più di 9.600 startup (in crescita del 5,9 rispetto al 2017), manca una strategia o un modello mediante il quale queste realtà possano essere scalate in maniera sistematica, il che permetterebbe di testarne il modello di business e consentire di generare valore per l’economia.

In un Paese dominato dalle PMI, la mancanza di grandi imprese che sappiano fare da catalizzatori per le realtà più piccole e recenti sicuramente non aiuta. Per le startup, uno dei modi principali per effettuare lo scaling up è infatti quello di sviluppare delle partnership con aziende già consolidate, per beneficiare delle loro economie di scala e dell’expertise maturata durante gli anni. D’altra parte, le aziende incumbent possono vedere nella partnership con startup una fonte di stimolo innovativo per rilanciare alcune proprie linee di business o per apportare cambiamenti strutturali al proprio interno.

Se nella teoria questo mutuo guadagno dovrebbe concretizzarsi in maniera naturale, la questione è in realtà un po’ più complicata. Nelle imprese italiane infatti è presente una modesta cultura innovativa per quanto riguarda l’open innovation e l’innovazione del proprio modello di business, il che rende difficile collaborare con realtà tipicamente caratterizzate da mentalità, linguaggio e processi completamente differenti. Tra i player più importanti solo uno su tre collabora attivamente con le startup e, principalmente, solo per ciò che concerne la ricerca e lo sviluppo invece che per operazioni di incubazione o co-creazione.

Nonostante vi siano validi incubatori sul territorio italiano, se il problema sta nella cultura, sia del mondo finanziario che delle imprese già consolidate, è difficile credere che i 300 milioni di investimento previsti rappresentino l’inizio di un cambio di rotta radicale per il futuro dell’ecosistema startup del Paese. I segnali positivi andrebbero stimolati tramite politiche che favoriscano da una parte l’ingrandimento del settore VC in Italia e che dall’altra sensibilizzino le aziende ad aprirsi al di fuori dei propri confini e adottare modelli di open innovation.

Indubbiamente l’ecosistema startup sta crescendo in Italia e allo stesso tempo la cultura innovativa del mondo imprenditoriale sta cambiando. Il 2019 sarà un banco di prova per capire a che ritmo procede la transizione e se il mondo corporate e il sistema finanziario sono effettivamente in grado di plasmare e contribuire in maniera attiva ed efficace a questo processo.

 

 


[1] Dati Aida.

 

 

 

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