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Politiche industriali, competitività e la fabbrica intelligente

N. Ottobre 2017
        

a cura di Camilla Bellini 
Senior Analyst, The Innovation Group

 

Questo mese abbiamo fatto colazione con…
Fabrizio Onida, Professore Emerito dell’Università Bocconi

Sul tema fabbrica intelligente è in uscita il libro del Prof. Onida “L’industria intelligente: Per una politica di specializzazione efficace”, edito da Università Bocconi Editore

 

Politiche industriali e Industria 4.0: perché un libro sulla fabbrica intelligente?
L’antica e sofisticata tradizione di cultura meccanica ed elettromeccanica hanno da tempo posizionato l’Italia all’avanguardia nella divisione internazionale del lavoro nei diversi comparti della meccatronica (inclusa la robotistica), oggi ridisegnata per incorporare i rapidissimi avanzamenti tecnologici della manifattura additiva, manutenzione predittiva, interconnessione macchine- oggetti (IoT) tramite cloud computing e altro ancora. È dunque quanto mai opportuno diffondere il più possibile informazioni e sperimentazione sulla smart factory nel frammentato tessuto delle PMI manifatturiere, per mantenere alta la tensione verso l’innovazione tecnologica (e organizzativa, all’interno e all’esterno della fabbrica!) come fattore cruciale di competitività.
Una cultura aggiornata e diffusa sulla fabbrica intelligente dovrebbe anche contribuire a una migliore comprensione del complesso nodo che collega l’automazione- robotistica a cambiamenti sul mercato del lavoro. In particolare, occorre rispondere con analisi empiriche documentate alle diffuse incertezze e paure circa lo spiazzamento radicale della manodopera da parte dei robot nei processi produttivi. La sostituzione di lavoro qualificato “intellettuale” con salari medio- alti a lavoro manuale a più basso salario è un processo complesso e inarrestabile, ricco di criticità, che proprio perciò va accompagnato da una corretta informazione e da esplicite politiche pubbliche e iniziative pubblico- private di formazione e riqualificazione professionale. Vanno evitate iniziative di facciata nel campo della formazione, che giovano alle burocrazie sponsorizzanti più che ai lavoratori.

 

A suo avviso, quali sono gli aspetti positivi e quelli ancora migliorabili del Piano Nazionale Industria 4.0?

Tra gli aspetti positivi del Piano nazionale Industria 4.0 vi è innanzi tutto la rinuncia a estenuanti bandi ministeriali, tradizionalmente caratterizzati da procedure arbitrarie come il click day, tempi lunghi e incerti di delibera ed erogazione dei benefici, rischi di corruzione. Gli incentivi fiscali automatici sono assai più trasparenti e inoltre, per definizione, concorrono a ridurre gli spazi per l’evasione fiscale, in quanto introducono una convenienza a fare emergere profitti tassabili e, come tali, una base imponibile commisurata al beneficio fiscale atteso. Un elemento positivo che sta emergendo nella versione del credito d’imposta nella legge di stabilità 2018 è l’estensione alle spese aziendali di formazione oltre le spese in R&S che incrementano il livello da un periodo precedente.

Continua invece ad essere un limite significativo dell’impianto del Piano l’assenza di qualunque grande progetto di ricerca pre- competitiva incentivata dallo Stato su grandi temi (driver dello sviluppo) che ormai sono al centro della politica industriale dei grandi paesi, a cominciare dall’Europa (smart factories, smart cities, mobilità sostenibile, efficienza energetica, bio- farmaceutica, economia circolare ecc.). Anche l’annunciata cooperazione fra Confindustria e la consorella tedesca (BDI) non ha finora fatto proposte in tal senso, benché la politica tedesca della HighTech Strategie e dei Future Projects sia nettamente marcata da iniziative di PPP (Public- Private- Partnership) in queste direzioni, coinvolgendo pesantemente rappresentanti imprenditoriali e studiosi responsabili di Università e centri di ricerca.

 

Cosa serve realmente al Paese per rafforzare la competitività del proprio sistema manifatturiero? E che implicazioni ha per il Paese nel suo complesso?

Segnalerei almeno due direzioni di intervento pubblico mirate a rimuovere croniche debolezze del sistema produttivo sul versante dell’innovazione. In primo luogo, un deciso impegno a coalizzare Miur e Mise nel rilanciare la vocazione del Cnr come struttura non accademica volta al trasferimento tecnologico (valorizzazione delle conoscenze, come preferiva dire l’ex- ministro e l’ex- presidente dello stesso Cnr Luigi Nicolais) dai centri di ricerca scientifica alle imprese. La missione dei Digital Innovation Hub, appoggiati alle strutture territoriali di Confindustria per connettere le imprese innovative a pochi e qualificati Centri di Competenza, appare lodevole a priori ma quasi totalmente priva di strutture dotate di capitale umano specializzato sia pur lontanamente paragonabile ai 22.000 addetti della tedesca Fraunhofer Gesellschaft. In secondo luogo, continuiamo ad essere un paese che partorisce decine di iniziative pubbliche di incubatori e parchi scientifici- tecnologici, tutti o quasi sottodimensionati e soprattutto privi di capillari rapporti con l’offerta di venture capital in Italia e altrove. Naturalmente questa carenza rimanda allo strutturale sottosviluppo in Italia del mercato dei capitali non bancari e in particolare del mercato del venture capital.

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