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Piano Nazionale Industria 4.0 tra luci e ombre: una rilettura critica

Da quando è stato presentato per la prima volta a Settembre 2016, il piano Calenda (poi Piano Nazionale Industria 4.0), ha riscosso grande apprezzamento e giudizi (quasi) unanimemente positivi, sia dal mondo industriale, sia da quello della ricerca. Non che questo sorprenda: dopo anni di politiche industriali votate per lo più ai tagli nel sostegno alle imprese, finalmente è stato presentato un piano organico, avente l’obiettivo primario di sviluppare e supportare concretamente l’adozione del paradigma 4.0 nelle nostre aziende.

Cosa contiene questo piano? Super (140%) e Iper (250%) ammortamento in primis, ma certamente non solo. Sempre in ambito fiscale, si parla poco per esempio di credito di imposta a favore delle attività di ricerca e sviluppo, che al contrario è stato potenziato per interventi in ottica Industry 4.0, fino a coprire il 50% dei costi interni ed esterni (ovviamente sempre e solo per il delta rispetto alla media degli investimenti del triennio 2012-2013-2014). Inoltre, con una enfasi più di medio-lungo periodo, il piano punta a sviluppare le nuove competenze necessarie per guidare e sostenere questa rivoluzione digitale, attraverso la creazione di centri di eccellenza dedicati, dottorati di ricerca ad hoc ed altre misure ancora (elencate in figura). Infine, il piano giustamente non dimentica le infrastrutture abilitanti (di rete, in primis), senza le quali Industry 4.0 rischierebbe di rimanere solo un affascinante ma inutile esercizio stilistico realizzato sulla carta, dato che verrebbero a mancare le basi su cui poggiare la trasformazione digitale delle imprese.

Figura 1 – Aree di intervento principali previste dal Piano Industria 4.0

Anche considerando la recente (31 Marzo) circolare congiunta di MISE e Agenzia delle entrate, emergono svariati elementi di positività:

  • Il piano è specifico per il tessuto industriale Italiano – traspare molto chiaramente lo studio preliminare svolto nei mesi precedenti la sua pubblicazione, in cui si sono analizzati i modelli proposti dagli altri paesi industrializzati e sono state sentite tutte le parti in causa, alla ricerca di una configurazione che non fosse un copia-incolla acritico del lavoro di altri, bensì fosse una soluzione cucita per il sistema paese Italia;
  • Il piano ha ben compreso la portata del fenomeno Industry 4.0 – Industry 4.0 non è solo una rivoluzione tecnologica e come tale va trattata. Non ha senso incentivare investimenti in tecnologia innovativa se in parallelo non si contribuisce a sviluppare nuove competenze per gestirla. In questo senso, pare ideale il mix tra misure di breve (incentivi fiscali) e di medio-lungo (competenze e infrastrutture) termine;
  • Il piano non si è dimenticato di nessuna tecnologia – anche sforzandosi, non si riesce a pensare ad ambiti che non siano almeno parzialmente inclusi in una delle 9 aree tecnologiche abilitanti proposte;
  • Il piano lascia libere le imprese di decidere in che direzione orientare gli investimenti, senza dover incastrare a forza proposte progettuali in specifici bandi di finanziamento, che di fatto finiscono col decidere in che direzione innovare;
  • Il piano incentiva gli investimenti in hardware, ma anche quelli in software – del resto, Industry 4.0 non è solo il rinnovo del parco macchine, bensì è anche e soprattutto la gestione integrata del dato che proviene da tali macchine;
  • Il piano guarda alla catena del valore, non al singolo nodo – Industry 4.0 è rivoluzione di filiera, che deve coinvolgere tutti i nodi della catena del valore, alla ricerca di sinergie super-additive.

Tutto perfetto, quindi? Ovviamente no. Qualche elemento di negatività emerge.

  • In primis, non possiamo e non dobbiamo dimenticarci del colpevole ritardo con cui questo piano è stato elaborato. Partire 4-5 anni dopo i competitor tedeschi o statunitensi certamente non aiuta le nostre imprese; inoltre, la stessa circolare dell’agenzia delle entrate, arrivata 3 mesi dopo la prima presentazione del piano, ha avuto si l’effetto di chiarire (bene) i dubbi interpretativi che erano sorti, ma di fatto ha ritardato ulteriormente l’avvio degli investimenti che devono, per poter rispettare i principi di (i) effettuazione, (ii) entrata in funzione e (iii) interconnessione, essere realizzati praticamente subito.
  • Non pare ottimale nemmeno la scelta del doppio ente di riferimento. Di fatto se un’azienda ha un dubbio contenutistico, deve rivolgersi al MISE, mentre per quesiti di natura fiscale deve fare interpello all’Agenzia delle entrate. Esiste il ragionevole sospetto che questo non accelererà i tempi, anzi.
  • Infine, ed è decisamente la nota più dolente, ben poche risorse sono state concretamente dedicate alle misure di medio-lungo termine. In altre parole, molti meno € del previsto sono stati allocati per costruire le competenze digitali necessarie per pilotare le innovazioni digitali stimolate dagli incentivi fiscali. Infatti sono solo 30 i milioni (rispetto ai circa 100 promessi inizialmente) messi a disposizione per promuovere e sostenere la ricerca applicata e la creazione dei cosiddetti “competence center”. È come costruire una super car da formula 1 e poi puntare a vincere il mondiale senza preoccuparsi di ingaggiare e formare un pilota professionista. Semplicemente impossibile, visto che fino a prova contraria le auto non funzionano (ancora) da sole. Idem dicasi per le misure infrastrutturali; il piano insiste giustamente sul tema della connessione tra impianti, che richiede però una connettività di base stabile, che purtroppo oggi in Italia esiste a macchia di leopardo.

Come muoversi concretamente verso Industry 4.0

Gli incentivi fiscali che favoriscono l’introduzione di nuove tecnologie digitali all’interno delle imprese Italiane sono certamente cosa buona e giusta. Ingegneristicamente parlando, sono condizione necessaria ma non sufficiente per la piena concretizzazione del paradigma 4.0. Paradigma che le imprese hanno il dovere di affrontare con approccio olistico, avendo l’umiltà di mettere in discussione l’attuale modo di fare business, con la consapevolezza che la rivoluzione dovrà partire dalle fondamenta, e cioè dall’organizzazione interna, dai processi, dalle persone.
In particolare le imprese sono chiamate a porsi 5 domande chiave:

  • Come il digitale rivoluzionerà il mio settore nei prossimi 5-10 anni
  • Quale è il potenziale valore per la mia azienda e cosa posso fare per massimizzarlo
  • Su quali processi ha senso che io orienti i prossimi investimenti
  • Quali nuove competenze serviranno e come fare per identificarle e mantenerle
  • Cosa devo fare per pilotare la mia azienda all’interno di questo percorso

Primo step fondamentale è quindi uno screening analitico dei propri processi di business, finalizzato ad identificare il livello di digitalizzazione di partenza. Immediatamente dopo, è ragionevole pensare ad un incrocio tra tali processi e le tecnologie digitali disponibili sul mercato, al fine di identificare gli ambiti di applicazione più promettenti. A questo punto, occorre sperimentare, progettare dei casi pilota che cerchino di concretizzare quanto progettato sulla carta, raccogliendo evidenze numeriche che possano eventualmente supportare del fine tuning. Se tali pilota si dimostrano in linea con gli intendimenti, il passaggio successivo è ovviamente l’estensione all’intera struttura aziendale, possibile solo a fronte di lavoro in parallelo su governance e competenze delle persone che avranno un ruolo chiave nel (nuovo) processo.

Il laboratorio RISE dell’Università di Brescia, in questo senso, supporta le imprese per intraprendere un percorso di innovazione di questo tipo.

A cura di: Andrea Bacchetti e Massimo Zanardini, Laboratorio RISE (www.rise.it), Università degli Studi di Brescia

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