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Doveroso ma meditato il passaggio al cloud per Telespazio

 

Questo mese abbiamo fatto colazione con: Maria Teresa Basile, Head of It di Telespazio

La migrazione al cloud è da diverso tempo al centro dei processi di evoluzione tecnologica e strategica delle aziende. Infrastrutture, applicazioni e dati sono coinvolti a differente titolo e molte scelte, dalla prioritizzazione delle attività alla scelta dei provider di riferimento, possono dipendere da fattori e mindset ancora in grado di condizionarne l’attuabilità o la velocità di esecuzione.

I responsabili It devono tener conto di spinte ed esigenze non sempre allineate già all’interno dell’azienda, fra chi mette davanti a tutto la necessità della business continuity a tutti i costi e chi, proprio sul fronte tecnologico, deve far fronte anche alle problematiche di sicurezza. Il mondo sembra andare in una direzione ben definita, talvolta imponendo la propria legge a chiunque, ma non tutti i dubbi appaiono fugati e non tutti i dilemmi risolti

Abbiamo provato ad analizzare la realtà di un soggetto molto particolare, come Telespazio, joint venture fra Leonardo e Thales, da sessant’anni impegnata nello sviluppo di soluzioni e servizi satellitari e per questo abbiamo incontrato la Head of It Maria Teresa Basile.

Quali tipologie di workload e relativi dati avete già portato in cloud e quali esigenze si celano dietro questa scelta??

Ci sono diversi elementi che concorrono a determinare le nostre scelte. Da un lato, stiamo certamente procedendo nella digitalizzazione dei processi aziendali e in vari casi le migliori soluzioni individuate sono cloud-native, quindi il passaggio diventa inevitabile. Tuttavia, tra le nostre line of business c’è la vendita  di immagini satellitari che dopo il download, sottopone i dati a  processi di post elaborazione anche impiegando forme di AI, come il machine learning, sulla base delle richieste dei clienti,: in questi casi vengono richieste risorse computazionali o di storage decisamente consistenti, che ha decisamente più senso gestire in una logica a consumo. Naturalmente, anche noi abbiamo l’esigenza di ottimizzare le risorse e i processi, per cui diventa conveniente centralizzare attività come backup, aggiornamenti, patching e gestione della security, in questo caso su cloud privato, ma non mancano situazioni in cui è il nostro cliente a chiederci l’erogazione di servizi in cloud, presso il suo provider di riferimento. Insomma, lo scenario è variegato, ma la direzione appare comunque ben delineata

Come vi siete orientati per supportare da un lato l’attività di test & sviluppo e dall’altro il disaster recovery?

Già prima della pandemia abbiamo messo a fattor comune una serie di risorse aziendali, con particolare riferimento alla virtualizzazione, per cui abbiamo realizzato all’interno dell’azienda un cloud privato, destinato in modo particolare a chi si occupa di test e sviluppo di applicazioni, soprattutto se orientate al business. Storicamente, poi, la nostra azienda si è sempre preoccupata sia della continuità del business che del disaster recovery, per cui la nostra infrastruttura è distribuita geograficamente, così come lo sono le nostre sedi sia in Italia che all’estero. La scelta del cloud privato ci ha consentito più agevolmente di aggiornare processi che esistono da oltre un decennio.

Quella del private cloud è una scelta univoca o siete flessibili rispetto ai differenti modelli disponibili oggi?

Sul cloud non si può fare una scelta unidirezionale, perché dipende dal tipo di soluzione, dai dati sottesi, dai vincoli del vendor e da altri fattori. Per questo, lavoriamo anche con infrastrutture di cloud pubblico, così come l’attenzione sul tema della protezione dei dati ci porta in alcuni ambiti a mantenere rigidamente i dati in casa, demandando al cloud solo l’implementazione delle policy. Con il tempo, abbiamo compreso quanto sia importante coinvolgere tutte le figure implicate in un processo, per cui tutte le volte che ci troviamo a dover fare una scelta non scontata vediamo dall’inizio di identificare un “cloud board” con le figure It, business, security e data protection, per analizzare ogni situazione , capire quali tipologie di dati siano coinvolte e fare una scelta orientata verso il provider più adatto anche in base alle politiche di sicurezza proposte e alla concreta possibilità di poterne verificare l’attuazione.

Al di là degli aspetti tecnologici, dove ritenete di dover lavorare per migliorare il livello di protezione dei vostri workload e dati, pensando al mindset aziendale nel suo complesso, alla sensibilizzazione delle persone o a una visione che ancora deve consolidarsi a livello It?

Dal punto di vista it, abbiamo registrato una fase di cambiamento che ci ha portati a evolvere da coloro che eseguono operativamente determinati processi a coloro che si occupano più della configurazione iniziale e del monitoraggio di quello che accade. Le professionalità su questo fronte stanno cambiando: fra qualche anno forse faremo fatica a reperire persone in grado di fare il patching, ma ce ne saranno di bravissime a interagire con i cockpit che i cloud provider mettono a disposizione per comprendere il processo di patching che saranno loro ad aver eseguito. Il mindset aziendale, invece, è certamente cresciuto anche grazie all’effetto della pandemia e alla generalizzazione di alcune prassi di accesso e utilizzo di strumenti prima meno considerati, facendo scoprire anche agli utenti meno digitalizzati modalità di utilizzo delle soluzioni in precedenza sconosciute.

 

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