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Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. Chimera o realtà?

INTERVISTA di Simona Macellari, Associate Partner, The Innovation Group a Giovanni Vetritto, Direttore generale Dipartimento Affari Regionali della Presidenza del Consiglio

Giovanni Vetritto

A quindici anni dal primo action plan sull’e-government, la digitalizzazione della PA torna ad essere una priorità per il Governo in carica. Ottimista o pessimista? 

Pessimista. Non per ragioni politiche, ma organizzative.

La digitalizzazione non è un obiettivo in sé, ma uno strumento, il più potente che abbiamo per la riorganizzazione di uffici e processi. Ma se se ne fa una questione di tecnologia in sé, si riproduce un modello che fallisce da vent’anni: informatizzare uffici mal pensati, animati da un’alta dirigenza priva in genere di cultura organizzativa, impegnati su processi farraginosi e spesso inutili, gravati da adempimenti sovrabbondanti.

Con l’ulteriore conseguenza che, di fronte alla impossibilità di adattare processi core ormai anacronistici alla razionalità essenziale dell’informatica (0/1, acceso spento), si finisce per sottrarre questi alla digitalizzazione, piuttosto che riscrivere regole e immaginare processi adatti alla modernità, all’esattezza dell’ICT.

Quel che non vedo (e che resta per me indispensabile per avere fiducia) è la disponibilità allo stravolgimento organizzativo che le aziende hanno fatto per uscire dalla crisi del fordismo, a partire dalla seconda metà degli anni ’70 del ‘900. In quel caso l’obiettivo era produrre cose nuove, diverse dal passato, con un diverso equilibrio prodotto/servizio, guadagnando efficienza e flessibilità operativa; non era certo l’informatizzazione. Quella è stata usata come mezzo. Noi rischiamo di digitalizzare l’inefficienza, informatizzando le strutture veterodivisionali “a canne d’organo” dei nostri ministeri, regioni e comuni.

C’è però grande attesa sulle quattro verticalità dell’agenda digitale italiana: fatturazione, identità elettronica, anagrafe, più sostanziosi investimenti su banda larga e ultralarga.

I temi sono certamente ben individuati e sulla resa puntuale di questi singoli investimenti posso essere ottimista anch’io. Ma quale sarà l’impatto in un sistema di governo che stenta a intaccare con la razionalità dell’ICT gli altri processi core (gli investimenti del CIPE e dei Fondi strutturali europei, i servizi amministrativi, le principali politiche di servizio pubblico)?

E soprattutto, è davvero una scelta giusta quella di concentrarsi sulla digitalizzazione di alcuni servizi di immediato interesse dei cittadini? Sarà controintuitivo, ma io resto convinto di no.

Ripeto, la priorità del Paese non è rendere migliori 3 o 4 servizi, per quanto importanti, ma buttare a mare l’architettura fordista degli uffici; e questo richiede ancora grandi e convinti investimenti sul back office, sui processi, investimenti che sono stati fatti male in passato e rischiano di non esserci più oggi.

Però in questi settori si è investito non poco in passato, con esiti non sempre felici.

Ma anche sui servizi all’utenza abbiamo commesso follie pazzesche. Le scuole sono piene di lavagne luminose obsolete già quando vennero acquistate, inadatte all’interoperabilità e all’interconnessione. Certi uffici giudiziari hanno i sottoscala pieni di strumenti elettronici comprati con due o tre piani per la giustizia digitale negli ultimi decenni e mai attivati, mentre i tempi medi dell’incasso di un decreto ingiuntivo in Italia restano un multiplo inaccettabile di quelli europei, come ci dice Doing business. Con questa logica non dovremmo investire nemmeno in servizi. Il problema resta sempre quello: vogliamo rinnovare l’organizzazione o digitalizzare?

Stavolta però c’è un investimento senza precedenti anche sulle risorse umane; l’arrivo di Piacentini da Amazon è un segnale importante.

Lo è. Ma resto convinto che fossero bravissimi anche altri che in passato si sono occupati della modernizzazione informatica. Il punto però è che spesso si trattava di esperti di ICT, mentre per imprimere quella svolta che io auspico servirebbe una task force di “mediatori culturali”, non di esperti di tecnologia: mediatori ovviamente competenti di tecnologia, ma capaci di capire i processi core e di non farsi “catturare” dalle logiche di conservazione dei gatekeeper di troppe importantissime funzioni pubbliche, spesso allergici non all’ICT ma al vincolo di razionalità che essa porta.

Non a caso uno dei momenti più felici della modernizzazione si ebbe quando all’AIPA venne preposto un economista e scienziato sociale come Guido Mario Rey, non un informatico.

Dal suo punto di osservazione delle politiche regionali, nelle periferie la situazione è migliore o peggiore?

Spesso il meglio della modernizzazione tecnologica avviene nei luoghi. Penso a “Retecomuni”, una straordinaria esperienza di digitalizzazione di back office e servizi ai cittadini in ambito locale, nata dal nostro programma Elisa. Ma poi esistono centinaia di Comuni rimasti alla penna d’oca, e dunque lì c’è anche il peggio. Il punto è ancora una volta organizzativo: quasi 6.000 dei circa 8.000 Comuni italiani hanno meno di 5.000 abitanti e una struttura amministrativa esilissima; quasi metà sono quelli che Massimo Severo Giannini già negli anni ’70 chiamava i “Comuni-polvere”, minuscoli per dimensioni e privi di qualunque capacità gestionale o amministrativa. La vera scommessa è quella dell’attuazione della cosidetta “legge Delrio”: la riaggregazione su scale di minima efficienza di questo tessuto disperso di amministrazione impotente, per farne strutture di servizio minimamente operative a disposizione dei territori; solo allora la digitalizzazione, che già presenta esperienze di punta, potrà diventare pervasiva e far fare il salto di qualità al Paese.

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