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Dalla sostenibilità con il digitale a un digitale sostenibile

 

L’ultima edizione del rapporto sul clima dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) ricorda l’urgenza di azzerare le emissioni nette di carbonio, in un periodo in cui l’impatto della pandemia (prima) e la guerra in Ucraina (poi) hanno cambiato l’ordine delle priorità. In realtà, va specificato che subito dopo l’applicazione delle misure restrittive e la conseguente limitazione degli spostamenti, era stata data grande attenzione ai benefici che la situazione (seppur di contingenza) aveva portato all’ambiente[1]. Un interesse, confermato anche dalle ingenti risorse economiche destinate alla transizione energetica e alla sostenibilità ambientale nei progetti dedicati alla ripresa economica e sociale post Covid, in particolare anche nel PNRR, che, però con la guerra sembra venire messo in discussione per i nuovi timori rispetto alla sicurezza energetica e all’approvvigionamento di combustibili fossili. Allo stato attuale, infatti, riduzioni (sia volontarie sia forzate) del consumo di energia di provenienza russa stanno spostando la domanda verso altri fornitori e altre fonti. Tale scenario potrebbe comportare possibili ulteriori aumenti dei prezzi nel breve periodo, con il rischio che la necessità di individuare la risposta più flessibile ai rincari e alle carenze energetiche possa spingere verso l’utilizzo di carbone, petrolio e gas proveniente da altri Paesi ed essere incompatibile con l’intento di ridurre le emissioni e di contrastare il cambiamento climatico. A complicare ulteriormente lo scenario è il timore sulla capacità dei modelli energetici più sostenibili di far fronte a un improvviso aumento della domanda di energia, considerato che le rinnovabili non hanno ancora raggiunto una capacità sufficiente a coprire la potenziale carenza, e tecnologie come il solare e l’eolico non sono in grado di aumentare rapidamente i livelli di produzione.

In questo contesto rischia di essere rallentato anche il passaggio alla neutralità carbonica, un’attività considerata imprescindibile per contrastare il cambiamento climatico. Si fa riferimento al fenomeno con l’espressione “net zero emission”, con cui si indica un percorso di lungo termine volto, appunto, ad una drastica riduzione delle emissioni di CO2 fino ad annullarle al 2050 (ad eccezione di alcuni settori, definiti “hard to abate” – quali, ad esempio, l’aviazione, l’agricoltura, la siderurgia – per cui non sarà possibile abbattere totalmente le emissioni entro la data considerata per motivi tecnici o economici).

Si tratta di preoccupazioni e urgenze senz’altro comprensibili ma che potrebbero seriamente rallentare i tempi del percorso verso un’economia globale sostenibile, uno scenario che qualora dovesse verificarsi provocherebbe, secondo l’IPCC, danni irreversibili per la società, inclusi quelli relativi a infrastrutture e insediamenti costieri.

Come incentivare, dunque, la lotta al cambiamento climatico e velocizzare il percorso verso la Net Zero society in un momento in cui lo scenario geopolitico e le necessità dei singoli Paesi e Governi rischiano di minacciarlo e rallentarlo? L’ innovazione tecnologica e digitale, grazie alla capacità di efficientare i processi, rappresenta un importante fattore abilitante per consentire un nuovo livello di decarbonizzazione sistemica e per accelerare il passaggio da un utilizzo di risorse lineare a uno circolare.

In questo contesto bisogna, dunque, interrogarsi su quale potrebbe essere effettivamente il contributo che il digitale può portare alla realizzazione degli obiettivi climatici (in Europa così come in Italia) e quali saranno gli impatti del digitale sul processo di decarbonizzazione e sulla costruzione di una società ad impatto climatico neutrale.

Al riguardo, The European House – Ambrosetti[2] ha simulato un modello di impatto con l’obiettivo di stimare il contributo del digitale alla neutralità climatica in Italia entro il 2050. In particolare, dalle analisi svolte, è emerso che il contributo del digitale sarà responsabile del 53,2% dell’abbattimento delle emissioni: di queste il 17,8% sarà abbattuto direttamente dal digitale e il 35,4% in maniera indiretta; il restante 46,8% sarà funzione di tecnologie non digitali.

Lo studio evidenzia, inoltre, la forte sinergia tra decarbonizzazione e digitalizzazione, focalizzando l’attenzione su come il digitale sia soprattutto un abilitatore di efficienza energetica e di sostituzione delle fonti fossili, ambiti in cui il digitale agisce trasversalmente grazie alla possibilità di fornire decisioni data driven e alla capacità di simulare complessi modelli di relazione.

Sempre secondo l’analisi, infine, proprio grazie ai progressi della scienza e della tecnologica e alla crescente riduzione dei costi di molte tecnologie a zero emissioni è divenuto conveniente per investitori privati ed aziende indirizzare le proprie scelte verso soluzioni low carbon o zero carbon: in particolare, si tratta di una tipologia di investimento che, secondo stime IEA, è quasi raddoppiata tra il 2015 e il 2021, raggiungendo i 700 miliardi di dollari.

Senz’altro, l’attenzione (soprattutto da parte delle aziende) a tematiche relative a sostenibilità ambientale, transizione energetica e contrasto ai cambiamenti climatici cela un fenomeno più ampio e riflette un grande mutamento socio-economico-culturale che sempre più è andato affermandosi negli ultimi anni e si è tradotto in un cambiamento delle esigenze e degli interessi di cittadini e consumatori a cui ci si è dovuto necessariamente adeguare.

Si sta assistendo, dunque, all’affermazione di una nuova modalità di fare impresa (e più in generale di business), ampliando la logica dei modelli economici e dei bilanci per includere anche quei fattori (ambiente, salute, società, etica) un tempo trascurati. Questo nuovo approccio, caratterizzato dalla presenza della doppia “P”, dove accanto al profit (profitto) c’è il purpose (scopo), viene sempre più apprezzato da aziende e organizzazioni appartenenti a diversi settori. È il caso, ad esempio, del settore bancario in cui si sta assistendo ad un sempre più forte spostamento verso strategie basate su un banking “purpose-driven” che aiuterà le banche a distinguersi in un mercato sempre più competitivo e popolato da diversi player come banche tradizionali, banche digitali, fintech che offrono servizi simili. In particolare, una strategia “purpose-driven” richiede alle banche di saper unire il loro “purpose” (ovvero la capacità di generare e creare valore per gli stakeholder) alla customer e digital experience e a nuovi servizi che influenzino il comportamento dei clienti verso abitudini virtuose ma anche per ottenere performance economiche  e nel consolidare la fiducia dei clienti e nel valore economico generato verso tutti gli stakeholder (questo sarà il tema dominante del nostro Banking Summit il 22 e 23 Settembre)

Sul tema è intervenuto di recente anche il CEO di BlackRock Larry Fink, che 2 anni fa fu uno dei campioni della visione della creazione di Valore economico con i Valori etici, sociali e ambientali, per sottolineare «la contraddizione implicita nella complessità di definire, misurare, verificare e soprattutto realizzare uno sviluppo sostenibile viene esasperata dal conflitto armato, tanto da innescare una consistente marcia indietro». Il boicottaggio di risorse russe ha, infatti, «provocato un notevole aumento dei costi per miliardi di consumatori diffondendo le richieste di utilizzare non solo petrolio e gas provenienti da altre aree ma anche carbone, proprio mentre governi e imprese avevano imboccato il lungo percorso per lasciarsi alle spalle gli idrocarburi e tutti i combustibili fossili».

Il rischio è che, dunque, la guerra vada a interrompere un circolo virtuoso che coinvolgeva cittadini, aziende e istituzioni? L’attenzione alla sostenibilità ambientale (ma è un discorso che si può applicare a tutte le forme di sostenibilità) finora ha consentito di investire in innovazione, sviluppare e realizzare nuove tecnologie, far promuovere nuovi metodi di finanziamento e creare una nuova generazione di posti di lavoro nella transizione verde, rappresentando in maniera trasversale un vantaggio competitivo per qualsiasi azienda avesse deciso di approcciare a queste tematiche. Come impedire un cambio di rotta?

Presumibilmente si può ritenere che sia in Italia sia in Europa, l’attenzione alla sostenibilità ambientale e il ruolo rilevante che ai fini del suo sviluppo assume la trasformazione digitale sarà elevata soprattutto grazie all’applicazione delle misure dei Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza (PNRR) dei diversi Paesi dell’Unione Europea, un aspetto che si ritiene proseguirà anche se l’opinione pubblica sarà concentrata su altre tematiche. Come noto, infatti, la Commissione Europea ha richiesto a tutti i Paesi membri dell’Unione Europea di prevedere all’interno dei singoli Piani Nazionali dei requisiti minimi di spesa per la transizione verde e per la transizione digitale (pari rispettivamente al 37% e 20% dei fondi destinati a ciascun Paese) e di realizzare progetti in aree di intervento segnalate come particolarmente importanti (per esempio, efficienza energetica degli edifici o trasporto sostenibile).

Fonte: Commissione Europea, 2021

Tuttavia, se da un lato, l’innovazione digitale fornisce un importante contributo alla promozione di un futuro sostenibile, dall’altro bisogna altresì considerare che l’utilizzo stesso del digitale comporta un elevato consumo energetico.  Secondo, infatti, alcune stime riportate da Capgemini Invent[3], la crescente domanda di potenza di calcolo e archiviazione dei dati pone una sfida ambientale significativa. In particolare, dall’analisi è emerso che tutte le attività dei data center richiedono una elevatissima intensità energetica (si consideri che negli Stati Uniti i data center sono responsabili per il 2% del consumo di elettricità): sebbene alcuni dei più grandi hyper-scaler cloud abbiano compiuto passi significativi verso l’alimentazione dei loro data center con energia rinnovabile[4], ad oggi la maggior parte di questi sono ancora alimentati da combustibili fossili. Allo stesso modo, secondo l’analisi, la produzione e lo smaltimento dei dispositivi elettronici hanno un impatto ambientale significativo: l’estrazione di metalli utilizzati per la fabbricazione di smartphone, per esempio, genera grandi volumi di rifiuti tossici. Nel complesso, le stime indicano che il costo del carbonio per produrre questi dispositivi è quasi uguale o supera il costo del carbonio richiesto per il loro utilizzo, rendendo, dunque, fondamentale estendere la durata della vita dei dispositivi elettronici[5].

Se, dunque, da un lato i sempre più numerosi investimenti da parte di aziende ed organizzazioni pubbliche in tecnologie digitali comporta un aumento delle emissioni di anidride carbonica e rilascio di sostanze nocive nell’ambiente, dall’altro queste non sembrano essere consapevoli degli effetti delle loro attività e non considerano prioritario promuovere al loro interno forme di IT sostenibile.

Fonte: Capgemini Invent, 2021

Secondo un rapporto del think thank Shift Project, le tecnologie digitali, allo stato attuale, sono responsabili del 4% delle emissioni di gas serra, una cifra che potrebbe raddoppiare già entro il 2025.

In questo senso, dunque, l’opportunità di allineare tecnologia e sostenibilità deve essere duplice: le aziende non devono soltanto utilizzare la tecnologia per diventare più sostenibili (sostenibilità attraverso la tecnologia) ma anche rendere la tecnologia stessa più sostenibile (sostenibilità della e nella tecnologia).

Il percorso verso una zero net society è senz’altro lungo e impervio, ostacolato (come visto in precedenza) da un contesto geopolitico che richiede un’urgenza di azione e intervento nelle fonti di approvvigionamento di gas ed energia a Paesi che scontano forti ritardi in investimenti ed attività dedicate all’utilizzo di fonti di energia alternativa. In questo processo, come già rilevato, svolge un ruolo fondamentale la transizione digitale, l’altra faccia della medaglia, un connubio che non può che rivelarsi vincente. Tuttavia, se la sostenibilità attraverso la tecnologia può essere un traguardo raggiungibile (grazie, soprattutto, agli investimenti previsti del PNRR), è la sostenibilità della e nella tecnologia, attraverso lo sviluppo e la fruizione di un IT sostenibile, che può appresentare una ulteriore sfida per il futuro. In questo percorso se le grandi aziende  che producono prodotti e servizi di  tecnologia, consapevoli degli effetti delle proprie attività, si stanno attrezzando sempre più per ridurre la propria carbon footprint, diverse problematiche si riscontrano ancora nelle aziende fruitrici di tali tecnologie  che, pur dichiarandosi sensibili e attente alle tematiche di cui si discute, non sembrano ancora essere pienamente consapevoli di tutti gli effetti (sia positivi sia negativi) delle tecnologie digitali.


[1] Si pensi, ad esempio, agli effetti positivi della significativa riduzione dell’utilizzo di automobili e di altri mezzi di trasporto.

[2] Per maggiori informazioni: https://www.ambrosetti.eu/news/verso-una-net-zero-society/

[3] Per maggiori informazioni: https://www.capgemini.com/insights/research-library/sustainable-it/

[4] Microsoft, ad esempio, ha annunciato l’intenzione di passare al 100% di energia rinnovabile per far funzionare i suoi data center entro il 2025 e Google ha annunciato di voler passare, entro il 2030, completamente all’energia priva di emissioni di carbonio per alimentare i suoi data center.

[5] Secondo Capgemini, nel 2019 in tutto il mondo sono state generate 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, facendo registrare un aumento del 21% in cinque anni. Inoltre, il volume di rifiuti elettronici dovrebbe crescere fino a 74 milioni di tonnellate entro il 2030. Tuttavia, allo stato attuale, solo il 17,4% dei rifiuti elettronici globali generati nel 2019 è stato riciclato.

 

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