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La comunicazione pubblica e l’impegno per la parità di genere

Nel combattere i gender gap e raccontare la condizione femminile, oggi purtroppo ancora segnata da pregiudizi culturali e da svantaggi materiali, la comunicazione pubblica e istituzionale ha un ruolo e una responsabilità. Chi fa il mestiere del comunicatore e chi rappresenta le istituzioni non può permettersi di rafforzare, nemmeno involontariamente, gli stereotipi di genere che pesano sulle donne anche in un Paese come l’Italia. Disparità salariali, maggiori oneri nella cura della famiglia, crollo dell’occupazione in seguito alla crisi sanitaria del 2020 sono alcuni esempi.

E poiché oggi la comunicazione è sempre più anche digitale, un obiettivo dei comunicatori dev’essere anche la riduzione del gender gap nell’accesso ai percorsi di studio e alle professioni Stem. Uno dei problemi da combattere è la storica, cronica indisponibilità di dati che permettano di quantificare i gender gap esistenti. Ce ne parla Leda Guidi, presidente di Compubblica, l’Associazione Italiana per la Comunicazione Pubblica e Istituzionale.

Leda Guidi, presidente di Compubblica

L’Associazione Italiana per la Comunicazione Pubblica e Istituzionale da trent’anni si occupa, attraverso studi, progetti, attività e iniziative sul campo, di promuovere la cultura della comunicazione delle/nelle istituzioni pubbliche, la formazione e la professione del comunicatore/della comunicatrice, quali leve strategiche per innovazione, modernizzazione, trasparenza e cambiamento delle Pubbliche Amministrazioni. In questo quadro, protagonismo, visibilità, competenza, esperienza, creatività delle donne professioniste della comunicazione e delle donne – e di tutti, cittadine e cittadini – interlocutrici, in un processo di scambio che parta dall’ascolto e dal dialogo, sono condizioni da fare emergere e valorizzare pienamente.

L’Associazione agisce la parità di genere a cominciare dalla governance, e si impegna attraverso di essa e attraverso la rete dei soci e delle socie che lavorano nelle pubbliche amministrazioni del Paese (centrali e territoriali) a immaginare e promuovere azioni, iniziative, percorsi formativi, progetti, partenariati che facciano della parità di genere una condizione fondante e praticata. Un approccio che pensiamo debba essere trasversale alle strategie, ai linguaggi utilizzati, alle modalità di interazione, ai criteri di accesso scelti da chi fa comunicazione, una comunicazione attenta a combattere stereotipi, bias culturali, marginalizzazioni, a colmare i diversi gender gap, non ultimo quello digitale.

Questo svantaggio in Italia è da tempo particolarmente significativo in relazione al contesto europeo, accelerato dalla trasformazione tecnologica che riguarda da vicino la comunicazione istituzionale – quella politica, quella di servizio e quella rivolta ai media – prodotta dalle amministrazioni pubbliche e dalle loro articolazioni. Un ulteriore ostacolo all’esercizio dei diritti di cittadinanza, digitali e non, che non ci possiamo permettere di non oltrepassare, nemmeno a livello economico: sappiamo come la diversity sia anche un vantaggio competitivo per le organizzazioni che ne fanno un valore e una policy aziendale.

In questa direzione inclusiva le attività formative e progettuali di Compubblica sono volte a stimolare in chi si occupa di comunicazione a tutti i livelli nelle PA attivazione personale e professionale, iniziative di sensibilizzazione al genere nell’ambito  delle  comunità  “aziendali/istituzionali”,  un’azione culturale ed etica che si evidenzia come urgente in questo secondo anno di pandemia. La metà della popolazione, quella femminile, a livello globale, europeo e nazionale sopporta in misura prevalente i carichi di cura non retribuiti/riconosciuti, l’espulsione dal mondo del lavoro e quindi l’impoverimento economico e sociale, e in generale un misurabile arretramento dei diritti.

Combattere i gender gap con il potere dei dati


Molti sono infatti gli studi e le analisi che ci restituiscono fotografie preoccupanti, in ambiti diversi, della situazione delle donne. Le donne si sono ritrovate più esposte su molteplici fronti, economico, familiare e sanitario. D’altra parte il tema della gender equality è il numero 5 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (Sustainable Development Goals, o SDGs) indicati dalle Nazioni Unite, e l’emergenza covid-19 ci ha fatto capire che siamo ancora ben lontani dal conseguirlo. La pandemia ha infatti amplificato le disuguaglianze esistenti.

Una comunicazione pubblica responsabile, trasparente, multicanale (dalla gestione delle relazioni in presenza fino alla crossmedialità) e gender sensitive – a partire dai dati aperti declinati per genere e dalla loro valorizzazione comunicativa, parlante, verificabile –  è funzionale al cambiamento culturale e al rinnovamento delle organizzazioni pubbliche, anche per il raggiungimento degli obiettivi 2030. Ci sono molte buone pratiche in questo senso: il Comune di Bologna ha appena pubblicato dataset relativi alla situazione demografica e socio-economica divisi per genere, utili al porre in essere politiche pubbliche volte al colmare i gender gap. È compito in primis delle PA contrastare nei e con i fatti l’assenza cronica di dati di qualità, accessibili, confrontabili, incrociabili e misurabili, elementi di conoscenza indispensabili per programmare azioni impegnate per l’uguaglianza di genere.

Il gender gap dopo la pandemia


Le donne soffrono molto di più dell’impatto economico del covid19, prima di tutto perché molte meno donne lavorano. E quando lavorano hanno uno stipendio più basso, anche in misura significativa. Gli ultimi dati di Eurostat sulla disparità salariale, il gender pay gap, tra uomo e donna fotografano una situazione che in Europa vede una differenza media nello stipendio del 15%. In Italia a dicembre il crollo dell’occupazione è stato quasi esclusivamente femminile, con 99mila donne sui 101mila posti andati perduti. Un fenomeno che si ritrova anche guardando a tutto l’anno: il 70% dei posti di lavoro perso è a carico delle donne. La ragione del crollo occupazionale soprattutto femminile è connaturata alle tipologie del lavoro stesso. Le donne sono impiegate soprattutto nei settori in crisi, più fragili e con meno tutele: quello dei servizi e quello domestico. E sono molto meno digitali, sia nelle professioni sia nell’uso dei servizi on line.

La buona notizia è che il programma Next Generation EU assume il superamento dei gender gap come obiettivo centrale. Ne verificheremo la realizzazione concreta dato che parole rituali e pinkwashing in questo contesto drammatico non sono accettabili, prima di tutto per il bene comune. Le linee guida pubblicate dall’UE a fine gennaio 2021 indicano come obbligatoria la valutazione impatto di genere in ogni capitolo d’investimento.

Gli Stati membri devono cioè valutare ex ante come e in che misura (quantitativa e qualitativa) gli investimenti infrastrutturali, energetici, digitali impattino il mondo professionale di uomini e donne, se creano posti e per chi, se agevolano la riduzione del carico del lavoro di cura permettendo alle donne di tornare al lavoro.

Gli interventi previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) richiedono alle Pubbliche Amministrazioni un impegno straordinario. Costruire indicatori che incorporino nel processo di progettazione e di messa a terra degli interventi, assieme agli altri elementi, anche una comunicazione pubblica e istituzionale attenta al genere, e che valorizzino il contributo di questa funzione – assieme organizzativa e culturale – potrebbe essere utile a un più efficace al raggiungimento degli obiettivi. 

Così come essenziale è una comunicazione verso i cittadini chiara, basata su dati e fatti controllabili, capace di rendicontare progressivamente i benefici e i miglioramenti degli interventi sulla vita delle donne, e delle persone in generale. Una comunicazione pubblica che innovi, mantenendo salde le proprie finalità, non guidata dall’offerta tecnologica del momento, capace di gestire i nuovi media e i nuovi ambienti tecnologici per formare comunità competenti e rispettose della parità di genere (a partire dal personale delle istituzioni pubbliche). Una comunicazione pubblica che contribuisca a un modello di cittadinanza, di “sfera pubblica” (anche digitale) larga e democratica, di una collettività più giusta e cooperativa, maggiormente in grado di interagire con contenuti e soluzioni di servizio più efficienti, riusabili, sostenibili e inclusive.

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