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AZIENDE PIATTAFORMA – UNA RISPOSTA DAL MERCATO PER AUMENTARE L’EFFICIENZA

A cura di Camilla Bellini, Senior Analyst, The Innovation Group

Da alcuni anni si parla con insistenza delle aziende piattaforma, dei nuovi modelli di business e del successo delle strategie di aziende come Amazon, Ebay, Facebook, AirBnB, Uber, ecc. Queste aziende, come già tante altre, hanno fondato o sviluppato la propria attività facendo leva sul ruolo di abilitatore / facilitatore delle connessioni tra produttori/ fornitori e consumatori; hanno ovvero dato vita a quelli che in letteratura vengono definiti “mercati a due versanti” (o twosided market), in cui le interazioni tra domanda e offerta vengono intermediate da una terza parte (l’operatore della piattaforma), che regola e governa gli scambi e le relazioni tra i membri della piattaforma. Il successo di queste piattaforme è legato soprattutto alla capacità da parte di queste di aggregare la domanda e l’offerta, semplificando e uniformando le regole di ingaggio (soprattutto online), e di accrescere nel complesso il surplus dei consumatori.

In altre parole, queste imprese si propongono di aggregare l’offerta di prodotti e servizi, riducendo i punti di contatto dell’utente con i mercati: emblematico è l’esempio di Amazon, che inizia ad operare a fine anni ‘90 come libreria online, diventando oggi leader nel commercio online e punto di riferimento per un numero di considerevole di settori, dall’editoria, dal software e dai videogiochi fino alla vendita di prodotti elettronici, all’abbigliamento, ai giocattoli e persino all’alimentare. Allo stesso modo, realtà come AirBnB hanno visto il loro successo nella capacità di aggregare l’offerta “privata” di accomodation e posti letto per fornire nuove disponibilità e nuove soluzioni per il mercato dell’hospitality.

La rilevanza e il successo di questi modelli porta d’altra parte a riflettere su un fenomeno più ampio, di trasformazione e innovazione nei mercati. Quello che infatti queste aziende hanno in comune è l’assenza di un nuovo prodotto o servizio alla base del proprio business: queste hanno infatti preso qualcosa che esisteva già, un’offerta latente e frammentate, dandole visibilità e semplificando l’accesso ai suoi prodotti/ servizi da parte dei consumatori.  AirBnB non ha “creato” nuovi posti letto all’interno delle case, ma ha dato la possibilità a chi ne possiede uno (anche solo in potenza) di renderlo accessibile e facilmente fruibile (attraverso sistemi di pagamento definiti, assicurazioni e pulizia previste, meccanismi di valutazione dell’offerta diffusi, ecc.). Lo stesso vale per realtà come Uber (l’idea alla base non è quella di mettere su strada una nuova compagnia di taxi, ma di sfruttare appieno l’esistente) o Amazon, che infatti non produce nulla, ma raccoglie l’offerta di grandi e piccoli fornitori, rendendola più efficace nei confronti degli utenti finali. Sembra dunque che questo fenomeno si basi su un principio economico “nuovo”, che si sta diffondendo anche in altri ambiti e in altri settori: valore non si crea dal nuovo, ma dal ripensamento e dalla riorganizzazione dell’esistente, rendendolo più efficiente e sostenibile. Questo trend – che si ritrova anche nell’edilizia con il recupero delle aree industriali per creare nuovi spazi al posto che costruire su nuovi terreni o la filosofia, che ora comincia a diffondersi in modo più diffuso, della circular economy, un modello economico fondato su un sistema industriale rigenerante o rigenerativo per intenzione e design[1] – sta diventando un  nuovo modo di pensare i mercati e le imprese: oggi le grandi imprese di successe sembrano essere infatti quelle in grado di portare ordine, governance ed efficienza sui mercati.

A fronte delle possibilità messe in atto da questo paradigma, d’altra parte, l’Italia sembra ancora ritardare le sue logiche di adozione. Questo ritardo porta con sé due rischi: da un lato, il rischio di vedere rallentare l’economia italiana, inseguendo modelli non più sostenibili e basati su logiche di potere e di guadagno di breve periodo; dall’altro, si rischia di assistere ad una diffusione di piattaforme e operatori non- italiani all’interno dei mercati nazionali che, facendo leva sul potenziale dell’economia italiana e minimizzando le inefficienze (logistiche, di mentalità, di frammentazione, ecc.), possono creare valore e tradurlo al di fuori dei confini nazionali. In entrambi i casi, il potenziale “sprecato” sarebbe significativo.

Questo non significa d’altra parte scatenare un isterismo da piattaforma: ne bastano poche, ben pensate, strategiche e ben regolamentate, che facciano leva sui mercati chiave del Bel Paese e che supportino e valorizzino quel potenziale “da non sprecare” su cui si fonda il potenziale competitivo dell’Italia.

 


[1] Per ulteriori dettagli si consigliala lettura del report del WEF “Towards the Circular Economy: Accelerating the scale- up across global supply chains”

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