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Perché lo smart working non è quello che sembra

Superata la fase di emergenza acuta adesso è tempo di bilanci: ricostruire vuol dire, infatti, anche imparare dagli errori del passato e partire dalle esperienze positive. Se, come più volte affermato, alla crisi va riconosciuto l’aver accelerato dei fenomeni già (timidamente) in atto (come, ad esempio, lo smart working), adesso la vera sfida sarà fare in modo che queste best practice si pongano come il “New Normal” del futuro.

Il forte incremento dello smart working registrato nei mesi del lockdown induce a riflettere su quanto il passaggio verso le nuove modalità lavorative sia sostenibile sia sul piano economico sia sociale, fin dove è possibile proseguire con lo sviluppo del lavoro agile in azienda e quali sono effettivamente i lavori che si prestano ad affrontare meglio i cambiamenti in atto. Sono queste alcune delle principali domande poste da Tito Boeri, Economista e Professore Ordinario dell’Università Bocconi, nel corso della web conference “Smart Working: tecnologie, organizzazione, risorse umane”, organizzata da The Innovation Group lo scorso 5 giugno.

Per Boeri, infatti, pensare ad un futuro in smart working vorrebbe dire innanzitutto affrontare delle problematiche che l’urgenza dettata dallo scoppio improvviso della pandemia ha reso impossibile tener conto. Lo smart working coinvolge, del resto, la fascia di lavoratori con livelli di reddito ed istruzione già piuttosto elevati mentre fatica a farlo con le fasce più deboli. Va, inoltre, tenuto conto delle notevoli differenze nelle condizioni abitative delle persone, un aspetto che crea disuguaglianze molto forti anche nelle modalità di svolgimento del lavoro. Il tema è stato ripreso anche da Edoardo Accenti, Sales Manager, HPE Aruba secondo cui bisogna far sì che l’ambiente domestico abbia lo stesso livello di sicurezza delle infrastrutture enterprise, altrimenti si rischia che, pur connettendo l’utente, non si riescano a garantire i servizi essenziali.

Pensare, dunque, alla possibilità di un cambiamento radicale nell’attuale organizzazione del lavoro dove venga lasciato molto più spazio allo smart working, vorrebbe dire lavorare sull’offerta di spazi comuni, sviluppare luoghi di coworking, iniziare a riflettere sin da ora su un progetto di sostenibilità sociale ed economica che metta tutte le persone nelle stesse condizioni di svolgere il proprio lavoro in modalità agile.

La necessità per le aziende di adottare un piano specifico volto ad un’efficace implementazione dello smart working è dettata anche dal forte incremento stimato nel suo sviluppo e diffusione. Secondo, infatti, un’indagine condotta da The Innovation Group a marzo 2020 e volta a comprendere il livello di adozione dello smart working su un campione di 99 aziende italiane, il 65% dei rispondenti ha stimato un incremento al ricorso al lavoro smart nella propria azienda rispetto ai livelli pre-crisi.

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Tuttavia, non va dimenticato che auspicare un futuro in cui il lavoro venga sempre più concepito come smart vorrà dire per l’azienda innanzitutto promuovere un change management e una nuova cultura organizzativa. Il tema, ben affrontato da Massimo Palermo, Country Manager, Avaya Italia, è stato poi ripreso da Fabrizio Callery, Sales & Marketing Director, GFT Italia secondo cui, appunto, il lavoro intelligente implica innanzitutto un cambiamento culturale aziendale e un cambio di paradigma volto alla responsabilizzazione delle persone.

Che la crisi pandemica abbia rappresentato uno spartiacque, sancendo un “prima” e un “dopo”, è ormai opinione comune ma di fatto le aziende che hanno colto al meglio i benefici dello smart working sono state quelle che già in precedenza avevano dato avvio ad un più ampio percorso di trasformazione digitale che ha permesso di affrontare l’emergenza in maniera molto più preparata e consapevole. È stato il caso, ad esempio, di Enel, la cui esperienza è stata riportata dal Global Chief Information Officer Carlo Bozzoli che ha evidenziato come nell’arco di due settimane all’interno di Enel oltre 37mila persone siano state spostate in remote working, una cifra pari a circa il 55% della forza lavoro totale. All’interno di Enel, inoltre, sono stati ridisegnati gli spazi aziendali e le modalità di accesso ai luoghi di lavoro con una particolare attenzione al dipendente. La prospettiva è che l’ufficio del futuro sia concepito sempre di più in ottica “as a service”.

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È quanto è avvenuto anche all’interno di TIM in cui, come mostrato da Carlo Nardello, Chief Strategy, Customer Experience & Transformation Office, si è stati in grado di rispondere in maniera adeguata alle sfide poste dall’emergenza: ciò è stato reso possibile grazie al fatto che l’azienda, già a partire dal 2015, aveva iniziato a lavorare sulle nuove modalità di lavoro agile in un’ottica soprattutto di people caring. Anche secondo Luba Manolova, Direttore Microsoft 365, Microsoft Italia, l’organizzazione intelligente deve contraddistinguersi per la forte attenzione alle persone e, in modo particolare, all’empowerment, engagement ed employability dei propri dipendenti.

Infine, Anna Sappa, Responsabile Ufficio Infrastrutture IT della Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale, Inail, ha mostrato come l’emergenza abbia consentito di verificare la lungimiranza di precedenti investimenti in tecnologia. A fare la differenza sono stati, inoltre, il coinvolgimento umano e la capacità di aver introdotto alcune soluzioni innovative anche quando non sembravano strettamente necessarie. L’importanza dell’interazione tra le persone e di dedicare la giusta attenzione ai processi tecnologici è stata ripresa anche dagli interventi di Mirko Mapelli, Senior Systems Engineer, Nutanix Italia, Marco Oldani, EUROMED Industry Business Consultant Senior Manager, Dassault Systèmes e Marco Pasculli, Managing Director, NFON Italia secondo cui è stata la tecnologia il vero motore che ha permesso a tutte le realtà (sia pubbliche sia private) di continuare a competere e, soprattutto, ad esistere.

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Riconcepire il lavoro e l’azienda: il lavoro “obliquo”

Quella che si sta vivendo oggi è una grande esperienza di ricombinazione di lavoro in casa e in ufficio, un lavoro che oggi va compreso, riprogettato, rinegoziato. Dopo l’emergenza si parlerà di un nuovo equilibrio tra lavoro in sede e da remoto: sarà un lavoro “obliquo”. Ha esordito così Federico Butera, Presidente Fondazione IRSO nel suo intervento conclusivo. Ciò che è importante – ha proseguito – è la comprensione delle nuove modalità di gestire vita e lavoro garantendo il giusto work-life balance, una necessità che si avverte ancora di più per i lavoratori in smart working che rischiano di essere «always on», costantemente connessi.

Per tali ragioni sarà, dunque, necessario pensare a forme organizzative diverse, liberarsi dall’idea dell’ufficio inteso come la struttura in cui vengono definiti compiti e responsabilità ma piuttosto immaginarlo come un’organizzazione vivente in grado di gestire processi e risultati che si basa su meccanismi di continuo adattamento a processi esterni.

Si tratta di un modo di concepire il lavoro in maniera del tutto differente rispetto a come fatto finora, un cambiamento che dovrà essere accompagnato dallo sviluppo di relazioni industriali propositive e da un adeguato supporto alle piccole imprese che decideranno di intraprendere questo percorso.