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Perché non dovremmo preoccuparci della tecnologia

N.  Aprile 2018
        

a cura di Carmen Camarca 
Junior Analyst, The Innovation Group 

 

L’innovazione tecnologica e lo sviluppo dell’ICT hanno imposto cambiamenti anche, e soprattutto, in ambito lavorativo: più volte ci si è chiesti, infatti, se la tecnologia crei o distrugga posti di lavoro, se il continuo bisogno di innovare sviluppi nuove opportunità o renda sempre più superflua la presenza umana. E la prossima ondata innovativa guidata dall’ intelligenza artificiale e dalla robotica sembra destinata a creare nuove perplessità.

John Maynard Keynes nel suo breve saggio “Economic possibilities for our grandchildren”, già nel 1933, parlava di disoccupazione tecnologica. Keynes, infatti, era convinto che la “disoccupazione tecnologica” della sua epoca fosse un fenomeno temporaneo e che il livello di vita delle persone che sarebbero vissute cent’anni dopo di lui sarebbe stato da quattro a otto volte superiore a quello dei suoi anni Trenta: alle soglie del periodo cui si riferiva Keynes , il dibattito torna in auge.

A tal proposito, lo scorso 21 marzo l’Istituto Bruno Leoni ha organizzato una conferenza dal titolo “Why You Should Not Worry about Technological Unemployment”, in cui è intervenuta Deirdre N. McCloskey, economista nonché  Emerita Professor alla University of Illinois at Chicago. McCloskey, autrice di diversi libri (tra cui la nota trilogia sulla borghesia), si reputa un’ottimista e, in quanto tale, ha più volte affermato i vantaggi che derivano da una continua attività innovativa.

Partendo da una breve digressione storica, l’economista si è soffermata sul concetto da lei definito “the great enrichment”, il grande arricchimento: in meno di duecento anni, infatti, la ricchezza (intesa come capacità di acquisto di beni e servizi) degli abitanti di Europa e Nord America è cresciuta con un aumento compreso tra il 3000 e 10000 % . Tale processo è stato il risultato di uno sforzo partito dal basso, promosso e ottenuto da persone pienamente interessate al miglioramento della propria condizione.

Indagando sulle cause della Rivoluzione Industriale e sul great enrichment che essa ha portato con sé, la studiosa è riuscita a dare risposta a numerosi interrogativi che preoccupano tutt’oggi: la sua tesi è che sono la cultura e la libertà a creare le condizioni necessarie per il cambiamento che poi si concretizza in sviluppo economico e quindi in nuove opportunità occupazionali: la borghesia è stata promotrice di una nuova ondata di simboli e di idee, che hanno consentito di cambiare la condizione sociale di milioni di persone, perché è stata libera di poterlo fare.

Il grande arricchimento deriva, dunque, dalla “Grande Liberazione”, in virtù della quale i borghesi hanno potuto finalmente arricchirsi ed essere ammirati per questo, e tutto ciò è avvenuto sulla base di un patto sociale in virtù del quale se l’uomo è lasciato libero di innovare produrrà ricchezza. I grandi esperimenti moderni della Cina e dell’India, e il loro successo economico, sono figli di questo concetto e sono la prova di  come lo sviluppo tecnologico sia portatore della possibilità di nuovi sbocchi occupazionali posti di lavoro.

Certo, ogni cambiamento genera paura e inevitabilmente fa del male a qualcuno; sicuramente incoraggiare un’ulteriore spinta innovativa potrebbe minacciare la nostra libertà personale (si veda, ad esempio, il recente scandalo che ha coinvolto Cambridge Analytica, la società inglese di analisi di big data, accusata di aver usato informazioni riservate di 50 milioni di utenti Facebook per influenzare le elezioni americane ed europee), ma in un’economia dinamica questo è inevitabile.

Secondo la studiosa quindi, non bisogna temere la trasformazione tecnologica e le sue conseguenze, ma piuttosto incentivarla: permettere a tutti di esprimere liberamente la propria creatività e accogliere l’innovazione renderà il mondo più ricco. Abbiamo un grande futuro davanti a noi!

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