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Smart working: il delicato equilibrio tra privacy e flessibilità organizzativa

N.  Settembre 2017
        

a cura di Avv. Alessandro Cecchetti 
General Manager Colin & Partners

 

Il mondo del lavoro sta attraversando una trasformazione epocale. Non si tratta solo – si fa per dire – di raccogliere le nuove sfide del mercato attraverso l’adozione di infrastrutture digitali di ultima generazione o di dar vita a nuove figure professionali per rispondere con rapidità e preparazione agli input dell’economia delle informazioni.

L’incessante rincorsa al cambiamento percorre infatti anche il fronte organizzativo. La formula dello smart working riflette appieno la metamorfosi culturale che stanno attraversando le imprese, complice l’implementazione di politiche basate sulla valorizzazione delle persone e la disponibilità organizzativa delle risorse favorita dall’azzeramento delle distanze fisiche grazie all’utilizzo delle tecnologie e della rete.

Lo scorso 10 maggio, con l’approvazione del Senato, il Disegno di legge sul lavoro autonomo – ribattezzato “Statuto del lavoro autonomo” – è divenuto legge, riconoscendo ulteriore dignità a questa formula, sempre più diffusa in grandi aziende e multinazionali, sebbene ancora stenti a decollare nella maggior parte delle piccole e medie imprese, dove la presenza fisica è considerata ancora essenziale per lo svolgimento dell’attività.

La prestazione lavorativa fuori dal perimetro aziendale pone una serie di questioni giuridiche inerenti le modalità di utilizzo della strumentazione informatica che caratterizza la prestazione dei subalterni “in smart working”, prima tra tutti quella del controllo a distanza da parte del datore di lavoro, ma anche la tutela delle informazioni aziendali, temi questi strettamente connessi.

Sul primo punto la normativa e la giurisprudenza sono intervenute più volte nell’ottica di raggiungere un efficace equilibrio tra l’interesse legittimo del datore di lavoro nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, e quello dei dipendenti e della loro riservatezza, disciplinato dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Argomento, questo, riformulato poco più di un anno fa dal D.Lgs. 151/2015 (c.d. Jobs Act) con il precipuo intento di rispondere alle numerose evoluzioni tecnologiche ed organizzative connesse che hanno naturalmente caratterizzato le aziende italiane.

Due i punti più dibattuti nell’ambito della querelle. Da un lato la questione del significato di “tutela del patrimonio aziendale” che – accanto alle “esigenze organizzative e produttive” e  alla “sicurezza sul lavoro” – giustifica il ricorso a “gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza”, sebbene la loro installazione sia consentita solo previo accordo sindacale o di autorizzazione da parte dell’Ispettorato Nazionale del lavoro. Dall’altro lato, il che cosa si debba intendere con “strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa” che può far uscire l’introduzione del dispositivo tecnologico dalle autorizzazioni giuslavoristiche.

Un’ulteriore novità introdotta dal Jobs Act, è la possibilità di utilizzare le informazioni raccolte con gli strumenti introdotti in azienda alle condizioni sopra indicate per “tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”. In altre parole sarebbe possibile utilizzare tali informazioni anche per finalità di carattere disciplinare, previo necessario conferimento ai lavoratori di “adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli”. La lettura congiunta di questi concetti alimenta il dibattito interpretativo sulla nuova versione dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, che è tutt’ora aperto e alimentato da una giurisprudenza a commento.

Il risvolto è anche tecnologico ed ulteriore conferma dell’attenzione sempre più alta sul tema è rappresentata dall’ “Opinion 2/2017 on data processing at work” dello scorso giugno. Il documento si inserisce perfettamente nella logica “privacy oriented” definita dalla General Data Protection Regulation rinforzandone i principi. Il parere ribadisce infatti in più passaggi l’esortazione a prevedere misure di protezione delle informazioni by design e sistemi di minimizzazione dei dati e pone l’accento sull’importanza delle valutazioni di impatto piuttosto che sulla valutazione dei rischi connessi da un lato all’utilizzo di strumenti e piattaforme fuori dal perimetro di sicurezza aziendale, dall’altro al monitoraggio dettagliato dell’attività lavorativa del dipendente.

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