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Siamo pronti a spendere efficientemente le risorse del recovery fund per l’innovazione del Paese?

N.  Settembre 2020
        

a cura di Lord Cheines* 

* “Lord Cheines” è lo pseudonimo di un alto Dirigente della Pubblica Amministrazione del nostro Paese

 


1.

Come diceva la buonanima di Luigi Einaudi, nella vita “Tutti facciamo piani”.

Proprio tutti?

L’imminente arrivo di una massa ingente di risorse finanziarie a disposizione degli Stati dell’Unione Europea, da investire per favorire la ripresa economica dallo choc sistemico indotto dalla pandemia da Covid 19, pone alla pubblica amministrazione italiana il problema di “fare piani”; farne di seri, basati su evidenze empiriche validate, in vista di obiettivi misurabili e plausibili.
Ma la pubblica amministrazione è oggi in grado di far fronte a questa sfida?

In realtà negli ultimi decenni si è verificata una perdita progressiva della capacità di “fare piani”, indotta da una serie di scelte che nel tempo hanno depotenziato i “luoghi” amministrativi del programmare e ne hanno frammentato le funzioni in una miriade di corpuscoli, ciascuno depositario di una teorica buona ragione di specificità, ma che nella sostanza finiscono per dimostrarsi inefficaci, in quanto non dotati dei saperi e delle competente necessari a programmare.

 


2.

La stagione della “programmazione” vissuta dall’Italia con il primo centrosinistra (quello vero di La Malfa e Saraceno dei primi anni ’60, non le scimmiottature fallimentari della cosiddetta Seconda Repubblica) aveva sviluppato in Italia una burocrazia adeguata alla sfida.

Il Segretariato generale della programmazione del Ministero del Bilancio, il cui primo direttore fu nientemeno che Giorgio Ruffolo, aveva un ruolo di regia ben preciso; l’universo delle imprese pubbliche rispondeva al Parlamento di piani e programmi attraverso uno specifico Ministro per le partecipazioni statali, posto a capo di un piccolo Ministero altamente tecnico; le funzioni di studio erano collocate presso due specifici istituti, l’ISCO e l’ISPE; il divario territoriale del Sud veniva affrontato dal sistema articolato costruito attorno alla Cassa del Mezzogiorno; le decisioni strategiche, per loro natura incidenti sulle competenze di più ministeri, venivano assunte collegialmente in un apposito comitato interministeriale, tuttora esistente, il CIPE.

Nei decenni il sistema è stato via via smontato: cancellati gli enti con funzioni di studio e analisi (non sia mai che qualche evidenza empirica possa frenare la presunta “volontà generale”), abolito nel momento di massimo furore antistatalista il Ministero delle partecipazioni statali (ma non le partecipazioni stesse, che sono ancora molte e rilevantissime ma non ricevono più né indirizzi né controlli), alla fine lo stesso CIPE ha dovuto cambiar pelle e diventare una sorta di sede di registrazioni di decisioni di spesa (cosa ben diversa da un “piano”) settoriali.

 


3.

Il punto citato da ultimo è dirimente. Il tramonto delle istituzioni della programmazione non ha corrisposto, come pure avrebbe potuto, ad una deriva thatcheriana, ad un aumento dello spazio per l’economia privata, ad una vera rinuncia allo “Stato imprenditore” che aveva caratterizzato, piaccia o meno, la storia del Paese e segnato nei suoi momenti di maggiore fortuna, le fasi di maggiore crescita economica (dal “decollo” dell’età giolittiana al “boom” del secondo dopoguerra).

È rimasto tanto, forse perfino troppo Stato nell’economia; è continuata la dipendenza del settore privato dalla finanza pubblica, con un settore del credito privatizzato che si sarebbe voluto imprenditoriale e aggressivo e invece è ancora timido e orientato alla rendita.

Nelle fasi storiche di crescita dell’economia italiana dinanzi ricordate, economia privata e Stato imprenditore avevano giocato ruoli diversi ma complementari, e il settore pubblico aveva colmato alcune mancanze dell’imprenditoria privata.

L’azione dello Stato imprenditore era stata orientata dai menzionati luoghi della programmazione, che avevano ispirato piani e programmi spesso di portata storica, dal “Piano casa” di fanfaniana memoria ai piani per la siderurgia.

Poi questa storia di successo (nei limiti del giudizio che si può dare delle cose umane) è stata travolta dal declino della politica, a partire dalla crisi dei partiti palesatasi già negli anni ’70 del ‘900, e ad essa è stata addossata ogni colpa per il ristagno dell’economia già dagli anni’80 del ‘900 (quando pure l’Italia era la quinta se non la quarta economia mondiale).

Si è inteso fingere di rinunciare allo Stato imprenditore e si è di fatto rinunciato a programmare per bene le risorse pubbliche come invece si fa in ogni normale (e non socialista) democrazia moderna.

 


4.

Alla fine di questa non commendevole vicenda, chi programma oggi in Italia? Chi dovrebbe pianificare l’uso delle risorse per la ripresa dal virus?

La risposta, sconfortante, è: tutti e nessuno.

La sede naturale dovrebbe essere il CIPE. Che però ormai da anni non produce più grandi programmi nazionali integrati, in cui intrecciare ruoli e responsabilità dei diversi ministeri; ma è una noiosa sede di passaggio in cui ciascun ministero si fa approvare la propria (ben poco strategica) lista della spesa. Nessuno sforzo comune, ma un negoziato sul quantum da indirizzare a certe funzioni, suddividendo di fatto soprattutto il Fondo Sviluppo e Coesione: tot alla ricerca, tot alle infrastrutture, tot alle calamità e alla protezione civile (e via enumerando).

Da ultimo, proprio in questi mesi, la struttura di supporto al CIPE, che è un Dipartimento tecnico della Presidenza del Consiglio, viene “doppiata” da un’altra pressoché identica struttura, anch’essa dipartimentale, dall’evocativo nome di Investitalia. Perché non concentrare e perché ripartire invece il potere dell’indirizzare risorse (di nuovo diverso dal “programmare”) tra più deleghe del Premier (e forse tra più partiti?).

Nessuna sorpresa che, in questo quadro, si verifichi una “fuga dalla centralità”.

I fondi europei, che negli anni belli di Delors e di Antonio Giolitti grande ministro del Bilancio, venivano programmati in un tutt’uno con i fondi nazionali, vivono ormai una vita separata e sono programmati per conto loro da un Ministro senza portafogli che non parla con nessuno; fino ad avere una “agenda digitale” dei fondi europei che non è stata negoziata con nessuno dei Ministeri competenti in chiave nazionale.

Ecco allora che chi si occupa di digitale reagisce facendosi istituire un proprio Fondo per l’innovazione tecnologica, che si riserverà di indirizzare (sperabilmente programmare) per conto proprio e senza i cascami ormai inutili di un pluralismo amministrativo che sarebbe utilissimo ma che ormai si avverte come finto.

Sorte analoga per il tema decisivo della BUL: Fondo ad hoc, megacomitato ad hoc, grande azienda pubblica che dà davvero le carte (Invitalia che ha in pancia Infratel, con buona pace dei cantori della morte dello Stato imprenditore). CIPE nell’angolo.

Allo stesso modo non è il CIPE a programmare i vasti interventi, necessariamente da condividere tra molti attori del sistema, per la prevenzione del rischio sismico: si inventa l’ennesimo Dipartimento della Presidenza del Consiglio, magari con un bel nome da réclame (Casa Italia), si mettono lì uno po’ di risorse anche mal indirizzate su alcuni pochi specifici obiettivi, e voilà, la conferenza stampa ad effetto annuncio è servita. Peccato che dopo quasi 5 anni la prevenzione del rischio non abbia fatto un passo che sia uno.

L’elenco delle derive minime dalla programmazione centrale, con effetto schizoide, potrebbe continuare all’infinito; basti fare l’ulteriore caso paradossale delle grandi ciclabili nazionali, finanziate da anni ma che non si fanno perché il Ministero che si è voluto prendere il potere di programmare, ovvero il MIT, tra Ponte di Genova e concessioni autostradali ha ben altro da fare.

 


5.

Dando per scontato che chi legge queste note non sia interessato alla scissione dell’atomo è forse il caso di finirla qui e tentare di tirare qualche rapida conclusione.

Mentre nel Paese impazza il dibattito sul quantum delle risorse per la ripartenza e sul “da dove”, MES o non MES, esse verranno, occorrerebbe aprire un serio dibattito sul come le spenderemo.
Saranno moltissime risorse, in conto capitale per la maggior parte, che richiederebbero investimenti integrati e quindi grande unità di intenti tra enti diversi nella comune adozione di un quadro programmatorio di riferimento.

Un CIPE degli esordi sarebbe utilissimo alla bisogna; il CIPE che abbiamo rischia di non esserlo più.

In tutti i Paesi sviluppati esiste una consolidata capacità di scrivere piani e programmi, di precisarne a monte i risultati attesi, di monitorarne l’avanzamento, di valutarne gli effetti. E ciò sempre più spesso in una chiave di collegialità governativa, come impone la natura integrata e multidimensionale dei programmi che più servono nella modernità.

L’Italia i suoi modelli e le sue istituzioni con questo scopo li aveva; ha più o meno consapevolmente deciso di abbandonarli, sostituendoli con il nulla, come dimostra la incapacità ormai cronica di presidiare azioni a carattere integrato e durata pluriennale.

In queste condizioni, le risorse che arriveranno rischiano seriamente di venire sprecate.

A meno che non si decida di fare cose minimali, come suggeriva il paradosso del quasi omonimo di chi scrive: scavare buche e poi riempirle di nuovo. Ma a quel punto, addio recovery.

 

 

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