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Industria 4.0: Abbiamo un buon programma, facciamolo funzionare

Foto Giorgio De MichelisA cura di Giorgio De Michelis, Professore, DISCo Università degli Studi di Milano – Bicocca

Vi sono molte ragioni per salutare con favore, se non addirittura con entusiasmo, il programma Industria 4.0.

In primis, è il rilancio di una politica industriale che spinge il sostegno all’industria secondo sentieri d’innovazione tracciati a livello planetario e questo è davvero necessario in un paese in cui spesso non risulta chiaro come il governo pensi di invertire la tendenza al calo della produttività che ha accompagnato questi anni di crisi. Una mossa così era necessaria, perché essa può davvero risollevare la fiducia dei nostri imprenditori e richiamarli a investire con convinzione.

In secondo luogo, Industria 4.0 è, finalmente, un programma orizzontale, che non vuole insegnare ai nostri imprenditori a fare il loro mestiere, ma offre loro mezzi significativi per rinnovare i loro processi secondo le loro logiche. Facendo uso delle tecnologie più innovative -dai big data all’Internet delle Cose, dalle stampanti 3D alla robotica- Industria 4.0 consentirà alle imprese Italiane che vogliono rinnovarsi di aumentare la loro flessibilità (grazie alla produzione di piccoli lotti ai costi della grande scala, alla riduzione dei tempi necessari a passare dal prototipo alla produzione in serie, ecc.), produttività (riduzione degli errori, migliore qualità e minori scarti) e competitività (con prodotti dalle funzioni più ricche grazie all’inter-connettività).

In terzo luogo, il Governo sembra orientato a mettere in campo azioni che stimolino e accompagnino le imprese nell’adottare gli strumenti offerti da Industria 4.0 con modalità inedite in Italia, per cui si può avere abbastanza fiducia che questa volta il programma sarà monitorato e seguito in modo tale che eventuali problemi saranno affrontati prima che inficino il progetto stesso.

Ma io, due problemi, e non piccoli, li vedo comunque e penso sia utile sollevarli adesso che Industria 4.0 è ai suoi inizi ed è possibile farvi fronte con efficacia.

Chi farà Industria 4.0?

Un programma che vuole coinvolgere le imprese Italiane in un percorso di innovazione tecnologica che investe i loro prodotti e servizi e i loro processi produttivi, decisionali e di business richiede non solo l’uso di hardware e software innovativi (dai sistemi e dagli algoritmi per il trattamento dei big data ai dispositivi –sensori, attuatori, ecc.- dell’Internet delle Cose, alle stampanti 3D) ma anche e soprattutto un adeguato numero (Assolombarda ha parlato al riguardo di 40.000 persone) di progettisti capaci di ridisegnare quei prodotti e processi, di integrare nei processi attuali le innovazioni e di cambiare le organizzazioni  in modo che esse facciano funzionare al meglio le innovazioni realizzate. Tra questi progettisti giocheranno un ruolo di rilievo -non saranno cioè gli unici ma saranno numerosi, probabilmente maggioritari- gli informatici. E non informatici tradizionali, quelli che oggi escono in maggioranza dalle nostre Università, ma data scientists, specialisti in robotica, interaction designers, makers, ecc. Ora, come confermano tutte le ricerche di questi ultimi anni, le nostre Università sfornano un numero di laureati in informatica  e ingegneria informatica (intendo tutti i laureati, non quelli con specializzazioni che interessano Industria 4.0) che non raggiunge un quinto del fabbisogno delle nostre imprese  ed ei nostri enti pubblici. In questa situazione, è facile capire che i numeri di specialisti che potranno essere impiegati in Industria 4.0 e troveranno nel programma l’occasione per mettere in gioco le loro competenze e i loro skills sono di poche decine, a fronte di una richiesta che non potrà essere inferiore alle centinaia se non alle migliaia. Quello che il programma prevede sul piano della formazione (corsi ad hoc a cura dei Politecnici e delle Scuole di Eccellenza) è largamente inadeguato e lo espone al rischio di un insuccesso anche ove fosse capace di suscitare entusiasmo tra le nostre imprese.

Penso che, da subito, bisognerebbe che Industria 4.0 lanciasse un programma per un marcato incremento dell’output dei corsi d’ingegneria informatica e informatica che chiami gli atenei Italiani a raddoppiare i loro corsi con un occhio particolare ai profili professionali dotati delle competenze di cui il programma ha bisogno. Sarebbe un’azione in cui far emergere gli Atenei più innovativi, che avrebbe un impatto positivo  sull’intero settore ICT, che oggi in Italia è debole e scarsamente qualitativo. Ma bisogna fare in fretta e agire con decisione, perché la vischiosità del sistema universitario Italiano non lo vedrà con favore e il successo del programma non può che essere inficiato in maniera grave dalla scoperta che le risorse umane per farlo non ci sono e non sono in preparazione.

Open Innovation

Dicevo più sopra che, perché Industria 4.0 abbia successo, esso deve suscitare l’entusiasmo tra le nostre imprese e che questo non basta. Ma è appunto una cosa importante. Il rischio è infatti che le imprese non colgano l’occasione che il Governo offre loro perché non ne capiscono la rilevanza e l’urgenza.

E, per questo, deve anche suscitare entusiasmo tra tutti coloro che potrebbero contribuire ad esso dalle Università alle imprese informatiche, dalle start up ai giovani che si stanno formando in informatica.

Allo stato attuale, vuoi perché la fiducia nelle azioni governative è flebile, vuoi perché le imprese non sono attrezzate per governare processi d’innovazione tecnologica, vuoi, infine, perché l’informatica Italiana è più avvezza a installare commodities che a progettare innovazione, quelli che dovrebbero essere coinvolti sono ancora tiepidi e si guardano in giro per vedere se questa volta succede davvero qualche cosa.

Questo farà fatica ad avvenire se non si svilupperà un fermento attorno ad Industria 4.0 fatto di idee, progetti sperimentali, incontri, in cui Industria 4.0 riesce a dispiegare e rendere comprensibile il suo potenziale e quindi mobilita le imprese ad interrogarsi su di esso, a cominciare a ragionare su quello che potrebbero fare nel suo alveo, a cercare gli interlocutori giusti, a sperimentare, a ripensarsi con processi più intelligenti e prestazioni più efficaci.

I poli che sono stati pensati attorno ai Politecnici e alle poche scuole di eccellenza Italiane, non sono in grado di suscitare la mobilitazione che ho evocato sopra né sembrano interpretare in questo senso il loro ruolo.

Mi immagino una iniziativa aperta, fondata sui principi dell’open innovation e del crowd-sourcing, che coinvolge in forme diverse studenti e giovani, start-upper e tecnici brillanti, designer e ingegneri in hackaton, corsi universitari di laboratorio, call di open innovation, gruppi di lavoro, ecc. tutti sotto l’egida di Industria 4.0, in cui si forma e cresce una comunità di innovatori multi-disciplinare e aperta, che investe le imprese Italiane di idee, esperimenti, progetti e realizzazioni prototipali, così da rendere sempre  più familiare per le nostre imprese pensare a quali innovazioni di prodotto, servizio o processo potrebbero aiutarle a migliorare la loro flessibilità, produttività e competitività.

Per fare questo non è necessario rimettere in discussione il ruolo assegnato ai Politecnici e alle Scuole di eccellenza: basta far partire al fianco delle loro azioni, questa iniziativa di massa avendo cura che essa possa e sappia contaminarle. Poi chi vivrà vedrà.

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