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Il deficit di capitale ICT e innovazione: quello che serve per la crescita

ViolaA cura di Ezio Viola, Managing Director, The Innovation Group

Il più potente antidoto alla paralisi implicita nelle molte analisi incentrate su deficit, moneta e altre soluzioni di breve respiro è focalizzarsi e capire due aspetti: comprendere da un lato che la crescita economica deve generare più produttività e che, dell’altro, il declino si combatte, ammesso che combatterlo si voglia, solo con un lavoro più produttivo.

Una delle componenti fondamentali per la crescita della produttività è il risparmio e l’investimento in capitale fisico: è semplice capire che lavorare un’ora con una zappa o un’ora con un trattore, qualora esso fosse già incluso nell’insieme delle tecnologie disponibili, non dà certo lo stesso risultato. A questo proposito se si considerano i dati Ocse sulle dinamiche dei Capital Services nei principali pesi europeo e in Usa scomposti nelle due categorie principali: capitale ICT o capitale 2.0 e capitale non-ICT, ovvero 1.0: macchinari, costruzioni etc., si osserva che nel periodo che va dal 1995 al 2014, i capital services ICT sono cresciuti in Italia meno che nelle altre economie avanzate e che, in particolare, l’accumulazione di capitale fisso non-ICT non ha particolarmente brillato. Le cose si sono aggravate durante l’ultimo lungo periodo di crisi, iniziato dal 2008, e l’insoddisfacente crescita attuale è causata principalmente da una mancanza cronica d’investimenti: i dati mostrano che dal 2007 il tasso di crescita dei servizi del capitale fisso è in pratica quasi zero in Italia e il gap in investimenti ICT è rimasto sostanzialmente inalterato. Anche in questo caso, in una prospettiva futura, senza massicci investimenti la produttività del lavoro non potrà che risentirne negativamente.

Fra agende digitali e promesse d’investimenti massici in larga banda e altro capitale ICT, in realtà si stanno accumulando altri ritardi che pesano sulla mancata crescita italiana. È abbastanza chiaro come l’innovazione tecnologica sia alla base della crescita della produttività del lavoro ed che è l’innovazione che permette di aumentarne la qualità. Nella pratica è difficile misurare con esattezza una “variabile nascosta” come l’innovazione.

Altri dati interessanti sono nel grafico 5 che mostra la misura della produttività multi-fattoriale TFP come definita dall’Ocse, in diversi periodi; l’Italia ha sperimentato una crescita negativa media annua in tutto il periodo considerato: dal 1995 ad oggi la decrescita media della TFP è stata pari allo 0.2%, mentre Francia, Germania e Stati Uniti hanno registrato tassi di crescita annui pari, rispettivamente, allo 0.6, allo 0.8 e al’ 1%. Pur se i paesi europei, Germania esclusa, fanno fatica a tenere il passo degli USA, l’Italia dall’inizio della crisi la TFP è decresciuta in media dello 0.6%, caso unico tra i paesi. È evidente che se si procede in questa direzione si va verso l’adozione della ricetta per la decrescita infelice. Per chi crede che le cose possano cambiare, non resta che la volontà di mettere in atto tutti gli sforzi necessari nelle aree che molte volte sono state elencate: capitale umano e competenze, investimenti, innovazione tecnologica e organizzativa, operando con riforme incisive e investimenti proficui sia pubblici sia privati.

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