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Discutere di delegificazione del digitale significa in pratica discutere del CAD

Foto Alessandro OsnaghiA cura di Alessandro Osnaghi, Professore, Università di Pavia

Vale la pena ricordare, per i più giovani e per chi non c’era, che si cominciò a legiferare il digitale a partire dal 1997 con le leggi Bassanini  e l’introduzione della firma digitale seguite dal  D.P.R.  445 /2000 “Testo unico sulla documentazione amministrativa”.

Su queste basi, verso la fine del 2001, iniziò la faticosa e controversa costruzione del CAD, come insieme di norme preposte alla digitalizzazione che tuttavia, dal 2005 fino alla revisione recente, non hanno ancora trovato, in molti casi, un assetto definitivo.

Nella stesura del CAD sono stati commessi numerosi errori, che possiamo considerare veri e propri peccati originali e così il Codice, invece di essere un fattore abilitante e propulsivo della innovazione tecnologica presso le pubbliche amministrazioni, si è rivelato in molti casi un ostacolo.

Da un punto di vista giuridico il CAD è una legge dello Stato, e quindi una norma di rango primario, di competenza del Parlamento o del Governo su delega del Parlamento ma, considerando le straordinarie opportunità che lo sviluppo tecnologico degli ultimi 20 anni consentirebbe, possiamo chiederci quali siano i motivi per regolamentare, con norme che richiedono tempi di aggiornamento molto lunghi, l’utilizzo, da parte delle pubbliche amministrazioni da un lato e dei cittadini e delle imprese dall’altro, di tecnologie in rapidissima evoluzione.

Una volta assicurata la tutela di diritti fondamentali dei cittadini e la uniformità delle soluzioni a livello nazionale a prescindere dalle soluzioni tecniche utilizzate, non sembrerebbero sussistere altre esigenze che richiedano la formulazione di norme legislative primarie al fine di ottenere risultati a livello sistemico

Il CAD, coerentemente con la prassi legislativa italiana, cerca di ottenere i risultati a livello sistemico solo stabilendo per legge le date entro le quali i servizi dipendenti dalla digitalizzazione devono essere resi disponibili da ciascuna amministrazione: questo modo di operare, tuttavia, non tiene conto del fatto che le amministrazioni non hanno tutte le  stesse “capacità” progettuali.

ll legislatore (o sarebbe meglio dire gli uffici legislativi interessati) stabilisce date arbitrarie senza aver precedentemente attivato gli studi di fattibilità che rendano conto della effettiva possibilità che le amministrazioni interessate rispettino la tempistica prevista. In pratica nessuno si sente realmente vincolato al rispetto delle scadenze, tanto si sa che saranno prorogate e così, ancora dopo 15 anni, molti adempimenti del CAD non sono stati rispettati e in alcuni casi non potevano esserlo.

Scrivere leggi in questo modo, oltre a non essere serio, non serve ad ottenere alcun risultato a livello sistema paese e mostra che questo approccio giuridico formale dovrebbe essere sostituito da un approccio di natura progettuale.

Non aver fatto e non fare alcuna distinzione tra le molteplici tipologie di amministrazione cui si applica (tutte le amministrazioni e gli enti pubblici incluse le scuole di ogni ordine e grado) è il primo peccato originale del CAD. A tutti il CAD impone gli stessi adempimenti che comportano la realizzazione di progetti innovativi ed è evidente che amministrazioni così diverse non hanno le stesse capacità di progettualità informatica: si tratta di un presupposto irragionevole che non può consentire di ottenere risultati a livello sistemico e da questo punto di vista il CAD è non è redimibile.

Si possono riconoscere i sintomi di questa malattia cronica nel testo dell’art. 50 bis che, nella versione originale, obbligava tutte le amministrazioni di qualsiasi capacità informatica a realizzare sistemi di continuità operativa ciascuna per conto proprio e che attribuiva un ruolo puramente burocratico a AgID, sicuramente non compatibile con le risorse di cui disponeva. È sintomatico che nella versione attuale del codice l’articolo sia stato cancellato, ma questo non è un modo per risolvere il problema. Si sarebbe potuto invece seguire l’approccio proposto nel mio articolo Continuità operativa, come riscrivere l’articolo 50-bis del CAD che implica un cambiamento di paradigma, per cui un organismo centrale mette a disposizione delle amministrazioni un servizio di continuità operativa  invece di chiedere loro di realizzare in modo autonomo le funzionalità richieste.

Il secondo peccato, come indicato in precedenza, riguarda il malcostume cronico del legislatore italiano (sarebbe meglio dire degli uffici legislativi) di prescrivere adempimenti a scadenze del tutto arbitrarie, prescindendo da ogni studio di fattibilità per i soggetti che le devono rispettare che, come detto, sono diversi tra loro per la oggettiva capacità di attuazione.

Questo modo diventa una farsa quando (praticamente sempre e per le note ragioni) si pretende che tutto debba essere realizzato senza costi o investimenti. È evidente che così gli adempimenti sono destinati ad essere disattesi e, naturalmente, poi tutto si risolve con l’annuale decreto “mille proroghe” che di fatto autorizza tutti a non rispettare le scadenze.

Il terzo peccato è stato trasferire nel CAD, e quindi a rango di norma primaria, normative di rango secondario legate a tecnologie in rapidissima evoluzione e che quindi non dovrebbero richiedere interventi legislativi lenti e incompatibili con i tempi di evoluzione tecnologica, ma solo adeguamenti di natura tecnica

Tra i casi da segnalare, per gli effetti negativi prodotti, è il trasferimento nel CAD della normativa SPC, SPC-COOP che, rifacendosi a soluzioni obsolete, blocca naturalmente l’adozione di paradigmi innovativi e allo stato dell’arte.

Negli ultimi 15 anni lo sviluppo delle tecnologie ICT è  stato frenetico, ad un ritmo mai conosciuto prima:  soluzioni che oggi sono possibili e di uso comune allora non esistevano e neppure si sarebbero potute immaginare.

Il lento e farraginoso processo della produzione normativa del nostro paese non potrebbe mai mantenersi allineato a questo tipo di rivoluzione tecnologica e, in una cultura dove è vietato tutto ciò che non è esplicitamente permesso, nessuna innovazione è possibile.

L’innovazione è possibile solo in una cultura in cui è permesso tutto ciò che non è esplicitamente vietato e dove quindi è possibile esplorare soluzioni in deroga alle norme (almeno fino al punto che se ne possa verificare la conformità sostanziale).

Per poter operare in questo modo è necessario che la normativa primaria regolamenti solo aspetti di carattere generale delle soluzioni da adottare e demandi in toto alla normativa secondaria la definizione delle caratteristiche che dipendono dalla tecnologia.

Mettere in sequenza l’implementazione di soluzioni tecnologicamente innovative alla disponibilità di regole tecniche che, per definizione, non possono che basarsi su soluzioni consolidate, allunga in modo incontrollato i tempi di realizzazione delle soluzioni e limita la possibilità di innovare. Sarebbe auspicabile che anche in Italia chi innova possa lavorare in deroga alle normative esistenti.

In conclusione l’attuale CAD così come attualmente costruito  non è stato utile a raggiungere gli obbiettivi di digitalizzazione della PA e dovrebbe essere sostituito con norme capaci di garantire risultati a livello sistemico, che non sono realizzabili come somma di interventi autonomi delle singole amministrazioni come implicato dalla formulazione attuale del CAD.

Per garantire l’attuazione dell’Agenda digitale del paese più che de-legificare è necessario ri-legificare formulando norme che abilitino la realizzazione di soluzioni sistemiche tramite approcci progettuali a livello nazionale introducendo modelli e strumenti di governance innovativi.

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