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Crescita digitale: Politiche industriali o spiriti animali del capitalismo?

BassaniniIntervista di Roberto Masiero, Presidente, The innovation Group a Franco Bassanini, Presidente, Fondazione ASTRID

Serve una politica industriale per favorire la crescita digitale del nostro Paese? E in questo caso, che caratteristiche dovrebbe avere, considerando le peculiarità specifiche del nostro sistema?

In Italia, a differenza di quanto avvenuto in altri grandi Paesi europei come Francia e Germania, il concetto di “politica industriale” è sempre stato trattato con non poche difficoltà.

I Paesi anglosassoni sono quelli in cui apparentemente gli spiriti del capitalismo sono lasciati liberi di agire incondizionati da alcun limite o regola. Tuttavia questo atteggiamento è spesso culminato in crisi sistemiche che hanno obbligato i governi a iniettare ingenti risorse finanziarie nell’economia, principalmente con l’obiettivo di ricapitalizzare banche e industrie e realizzare importanti infrastrutture materiali e immateriali: in fin dei conti, finanziando pubblicamente importanti manovre di politica industriale.

Favorendo la fair competition, le economie di mercato creano gli incentivi per esprimere il massimo risultato in termini di innovazione, produttività, crescita e, quindi, competitività, anche grazie a fenomeni di distruzione creatrice delle realtà meno efficienti; Economia di mercato insomma che non è incompatibile con una corretta politica industriale che miri a creare le condizioni di contesto, per esempio una regolamentazione stabile e adeguata. La competizione globale, effetto del processo di globalizzazione, ha talvolta persino spinto i Paesi a sostenere le economie con misure e interventi di politiche industriali che in un contesto Europeo sarebbero bollati come “aiuti di stato” e dunque proibiti.

In conclusione, stabilità politica, stabilità regolatoria, minore burocrazia, un sistema di infrastrutture materiali e immateriali adeguato, una pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro non eccessiva, un sistema educativo che sia in grado di mettere a disposizione tutte le skill e le competenze necessarie sono tutti parte di politiche industriali, che contribuiscono a rendere competitivo il sistema e le sue imprese, e ad attrarre investimenti.

A questo proposito, quali sono gli investimenti più necessari e più urgenti per il nostro Paese? Quali modelli di finanziamento ritiene auspicabile attivare a questo scopo?

Nel quadro delle politiche industriali ci sono delle misure che sono essenzialmente regolatorie (regolamentazione semplificata, riduzione della burocrazia, ecc.) che non possono essere messe in contrapposizione le une con le altre: andrebbero fatte tutte e, idealmente, tutte insieme. Per quanto riguarda invece le misure che richiedono investimenti di risorse pubbliche, data l’elevata mole del debito pubblico italiano e il processo di fiscal consolidation in corso, una attenta analisi degli impatti delle diverse misure è necessaria. La mia opinione è che investire sul digitale sia l’investimento più urgente e meno costoso. Per dare un’idea: con il costo di un chilometro di autostrada è possibile finanziare alcune migliaia di chilometro di copertura di rete in fibra ottica, oppure finanziare la digitalizzazione di una serie di servizi pubblici, con un impatto economico ancora più rilevante. Per questo dobbiamo essere estremamente selettivi e rigorosi nella destinazione degli investimenti pubblici, in modo da creare le condizioni più favorevoli possibili per attrarre capitali e finanziamenti privati.

Nel caso dell’economia digitale e dell’e-government, la trazione di investimenti privati in Italia può essere estremamente favorita se si riesce a realizzare per mezzo di investimenti pubblici una condizione di crescita della domanda di servizi digitali e di contenuti digitali. Per esempio, io personalmente prediligerei l’alfabetizzazione digitale nelle scuole, che è un punto fondamentale; oppure la trasformazione digitale di servizi fondamentali, come la sanità. Scelte che purtroppo non sono ancora molto chiare.

E infine: come bilanciare trasformazione digitale del Paese e Spending Review?

Che si debba spendere bene è ovvio. Che occorra una severa spending review è ovvio. Il punto vero è che gli investimenti sulla digitalizzazione dell’amministrazione e dei servizi pubblici oggi servono proprio a realizzare una vera spending review. Due ricercatori che lavorano in Svezia – Forzati e Mattson – hanno stimato, partendo dall’esperienza concreta di alcune aree della Svezia dove l’infrastruttura FTTH è stata realizzata, i risparmi che possono derivare dal sistema dei servizi sociali e sanitari dalla completa digitalizzazione dell’assistenza domiciliare. Questi risparmi richiedono un investimento iniziale che però si ripaga completamente già dal secondo anno. In Italia si tradurrebbe in un risparmio sulla spesa sanitaria di circa 12-13 miliardi all’anno, con un netto miglioramento della qualità del servizio, perché chi ha salute precaria o chi è anziano potrebbe essere controllato giornalmente nei suoi parametri fondamentali, dalla pressione alla temperatura, ecc., senza costi, senza spese.

Naturalmente bisogna installare nelle abitazioni quei terminali che consentono di rilevare questi dati. Però questa è una vera spending review, nel senso che, considerato che la spesa sanitaria in Italia si eleva intorno ai 110-112 miliardi di euro, più del 10% potrebbe essere risparmiato grazie all’implementazione di questa soluzione. Naturalmente ciò presuppone che ci siano infrastrutture a banda ultralarga che arrivino fino alle case, ma anche un iniziale investimento in apparati che rappresentano i terminali di questo particolare sistema di assistenza domiciliare. La scelta di fare un risparmio adesso è contradditoria con l’esigenza di una spending review che duri negli anni e che conduca a risultati non marginali, ma significativi.

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