27.05.2025

Chatbot all’italiana, fra timori e voglia di sperimentare

Il Caffè Digitale

 

Che cosa pensano dell’intelligenza artificiale generativa gli italiani? Non gli addetti ai lavori, i professionisti IT, i responsabili della cybersicurezza o i manager d’azienda, ma la gente comune. Hanno voglia di utilizzarla, si fidano, pensano che possa regalare una marcia in più sul lavoro o nella vita privata? Diversi studi fanno luce su uno scenario ancora piuttosto incerto. 

Banca d’Italia si è occupata del tema con un recente paper, firmato dall’economista David Loschiavo e dall’esperto di statistica Mirko Moscatelli. Sul campione considerato (quello dell’indagine congiunturale di Banca d’Italia sulle famiglie italiane, condotta lo scorso settembre), circa il 25% aveva usato strumenti di GenAI almeno una volta nell’anno precedente. Più ristretto il circolo degli utilizzatori frequenti, al 12%, ma bisogna considerare l’estensione del campione a fasce anagrafiche “senior” e anche a categorie professionali che abitualmente non siedono davanti a un Pc.  

L’uso della GenAI, come si legge nel paper, è più diffuso tra le giovani generazioni e questo non stupisce, e tendenzialmente gli uomini sembrano più attratti da questa tecnologia rispetto alle donne. Sopra la media di utilizzo si collocano anche i professionisti del settore Ict, gli insegnanti e i ricercatori. In generale, gli italiani usano i chatbot per cercare informazioni (tre utenti di GenAI su quattro), per aiutarsi nella scrittura di testi (29%), per creare immagini o contenuti grafici (26%), per semplice svago (21%) e per avere supporto nello studio (20%). Lo strumento più popolare è di gran lunga ChatGPT, frequentato dal 79% degli utilizzatori di GenAI e seguito a distanza da Google Gemini (31%), da Microsoft Copilot (5%) e da Dall-E. Percentuali francamente basse se paragonate a quelle che campeggiano negli studi sponsorizzati dai vendor.  

Quanto alle attese e ai timori che gli italiani riversano su queste tecnologie, l’ottimismo prevale sul pessimismo ma i due fronti convivono. Circa il 40% degli italiani pensa che la GenAI migliorerà l’accesso alle informazioni e tra i non pensionati il 30% crede ci sia una discreta o buona probabilità (50% o più) di diventare più produttivi sul lavoro. Solo il 13% pensa di avere una probabilità di sostanziale di perdere il posto a causa della GenAI e il 23% teme una riduzione di stipendio. 

Efficienza ed empatia sul piatto della bilancia 

“La fiducia nei servizi affidati a operatori umani surclassa ancora notevolmente la fiducia in servizi basati su GenAI in tutte le aree esaminate”, si legge nel paper di Banca d’Italia. Il 65% del campione ha detto di fidarsi delle persone più che dell’intelligenza artificiale per operazioni bancarie e finanziarie (solo l’8% ripone più fiducia nell’AI), e nonostante tutto si preferisce ancora lasciare le decisioni di politica pubblica agli esseri umani (per il 62%, versus 12% di chi le demanderebbe all’AI), così come si preferisce leggere un articolo scritto da un giornalista anziché da un algoritmo (51% versus 20%).  

Quindi i soldi, il diritto all’informazione, il benessere e la sicurezza sociale vengono visti come ambiti da tutelare, troppo delicati o critici lasciarli in mano a un algoritmo. Lo stesso si può dire per un ambito meno delicato e critico, ma che ha impatti nella vita quotidiana di noi consumatori: il supporto clienti. Gli abbondanti studi sul tema mostrano, in realtà, anche i vantaggi dell’automazione del customer support: più velocità, precisione nelle risposte, tempi d’attesa azzerati o quasi, barriere linguistiche che cadono.  

Anche su questo tema, però, convivono entusiasmi e diffidenze. Un’analisi condotta da NielsenIQ per Pulsee Luce e Gas Index, per esempio, indica che il 73% degli italiani usa l’AI abitualmente, e balza all’occhio la distanza dai dati del censimento di Banca d’Italia (10% di utilizzatori abituali), che è però stato condotto mesi prima e su un campione diverso.  
 
Anche dall’indagine di NielsenIQ, comunque, emerge che un consumatore italiano su due preferisce farsi assistere da operatori umani. Solo il 10% pensa che l’AI sappia capire le necessità dell’utente al pari di una persona, e infatti a moltissimi (90%) è capitato di abbandonare a metà la conversazione con un chatbot che non riusciva a comprendere la richiesta (37%), non proponeva vere soluzioni (22%) o portava la conversazione in direzioni inutili. Dell’AI si apprezza la velocità, mentre sono ancora territori squisitamente umani la capacità di comprendere emozioni e sentimenti (83% degli intervistati), la comunicazione empatica (75%), l’etica (72%). C’è comunque apertura verso modelli di servizio clienti ibridi, dove l’AI e gli esseri umani si passano la palla: il 53% è a favore.  

Sul tema dell’empatia, e su quanto essa sia ancora un valore nel servizio clienti, ci dice qualcosa anche l’ultimo studio di ServiceNow (“ServiceNow Consumer Voice Report 2025”), condotto su 17mila consumatori tra Europa, Medio Oriente e Africa. In Italia il 54% dei consumatori pensa che i chatbot non sappiano leggere i  segnali emotivi, ma secondo i più (75%) prima o poi arriveranno a farlo. 

Sull’empatia si può comunque sorvolare se l’AI serve a riempire una lacuna altrimenti incolmabile, perché il personale umano è insufficiente a gestire le troppe richieste. Parliamo della Pubblica Amministrazione, che anche in Italia negli ultimi anni ha fatto passi avanti nella digitalizzazione dei servizi. Nel campione italiano (750 persone) del recente “Connected Government Report” di Salesforce, il 67% ha detto di perdere molto tempo a orientarsi tra le piattaforme digitali della Pubblica Amministrazione. Il 58% è favorevole all’uso di agenti AI per la prenotazione di appuntamenti e il 44% li userebbe anche per la richiesta o il rinnovo di licenze e permessi. Per le situazioni di emergenza il 72% continua a preferire l’assistenza tradizionale, affidata alle persone. 

Un quadro in divenire 
Dare una risposta non effimera su che cosa l’AI rappresenti per i cittadini è difficile. Il progresso tecnologico in questo campo è particolarmente rapido e ogni nuova innovazione allarga i confini del possibile, nel bene e nel male. Crea nuove capacità ma minaccia, anche, di togliere qualcosa se quelle capacità vengono usate a discapito di quelle umane. Anche la narrazione mediatica sull’intelligenza artificiale plasma la percezione dei non addetti ai lavori, e negli ultimi anni molte volte questa tecnologia è finita in prima pagina, raccontata come nuovo terreno di battaglia fra le Big Tech e addirittura tra i governi, o come fonte di pericoli per la società e le professioni (disinformazione e truffe basate su deepfake, minacce al copyright, complicità negli attacchi informatici o causa di licenziamenti).  

Questi studi dipingono un quadro in divenire e non sempre coerente. Le modalità di indagine, la scelta del campione, le parole usate nel formulare le domande influenzano i risultati, le percentuali e le conclusioni. Incrociando questi dati emerge comunque il ritratto di un Paese curioso, non precluso alle novità, in cui però c’è ancora tanto bisogno di relazioni umane. Oggi, forse, ancor più che in passato. 

 

 

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